Comparazione tra la tutela civile delle procedure concorsuali nel processo penale e civile nei confronti del Collegio Sindacale nelle Società
Il tema dell’articolo è quello di valutare e comparare le differenze, nel caso di una procedura concorsuale o comunque nel caso di un’azione di responsabilità sociale, tra la tutela civile con apposita azione in sede penale e la tutela civile in sede civile, sempre nei confronti dell’organo di controllo.
- Brevi cenni sulla responsabilità penale del sindaco per omesso impedimento dell’evento
Giova solo riassumere che i principi della responsabilità penale del sindaco nel processo penale sono diventati sempre più delicati e densi di incognite/insidie.
Come è noto la ricostruzione della responsabilità penale del sindaco ruota, sotto il profilo penale, tipicamente attorno al disposto dell’art. 40 co. 2 c.p. sostanzialmente una responsabilità per fatto proprio ma che deriva in qualche modo da un’asserita inerzia nell’attività del collegio sindacale rispetto a delle condotte che si assumono essere dei reati da parte degli amministratori.
In senso stretto si usa definire la responsabilità del collegio sindacale per omesso impedimento del reato degli amministratori.
L’obbligo giuridico di impedimento dell’evento generalmente lo si individua nella disciplina di cui agli artt. 2403 e 2407 c.c. e sostanzialmente ha molte analogie con quanto la giurisprudenza assume essere l’obbligo interruttivo dell’amministratore privo di deleghe per illecito penale consumato dall’amministratore delegato.
E’ noto che le iniziative che i sindaci possono o per meglio dire devono assumere, in presenza di un sospetto di illeciti consumati dall’organo di amministrazione, vanno, in ordine come dire “crescente”, ricondotte all’art. 2403 bis c.c. (con riferimento ai poteri di ispezione e controllo, al potere di chiedere informazioni al c.d.a., al flusso di informazioni con i sindaci delle controllate), 2405 c.c. (quanto ad intervento alle adunanze del c.d.a. e alle assemblee), 2406 c.c. (per la convocazione dell’assemblea in caso di omissione degli amministratori) 2409 c.c. (denunzia al Tribunale di sospette gravi irregolarità nella gestione).
Molto delicato è innanzi tutto richiamare il tema della prova del nesso eziologico tra la mancata attivazione e l’evento-reato dell’amministratore, ancor più laddove, secondo parte della giurisprudenza, la condotta omissiva del sindaco non è qualificata come una condizione necessaria dell’evento ma semplicemente una condotta agevolatrice.
Come principio generale la giurisprudenza ha da un lato, precisato che la responsabilità dei sindaci, per omesso impedimento dell’evento, può aversi solo laddove sia provata la conoscenza del fatto illecito attraverso l’esercizio del potere informativo, salvo poi dilatare, d’altro canto, le ipotesi fino a ricomprendervi la conoscibilità attraverso l’esercizio del potere informativo.
Ecco perché con questa “new entry” del dolo eventuale si è giunti ad affermare la responsabilità del sindaco (così come per il consigliere senza deleghe) per non essersi informato, fino a ricomprendere ipotesi in cui il soggetto non si è nemmeno rappresentato il rischio della commissione di un reato preciso.
Appare evidente l’analogia di tale costruzione giuridica con quella dei cd segnali di rischio del tutto tipica appunto per il consigliere senza deleghe.
Restando più specificamente nella figura del sindaco (chiamato a svolgere il suo incarico con la diligenza specifica imposta dalla natura della prestazione resa che, essendo tecnica e specialistica, deve soddisfare precisi target di professionalità tanto più elevati e accurati se la società specifica lo richieda ie banca o assicurazione) il problema del dolo eventuale si pone, se vogliamo, anche con maggiore intensità.
Se, quindi, il sindaco deve operare con una diligenza specialistica, a maggior ragione si pone il problema di quali siano i c.d. “segnali di rischio”, visto che egli, a seguire tale impostazione, dovrebbe essere ancor “più sensibile” per captarli con tutte le difficoltà del caso.
Si supponga conclusivamente il caso dell’amministratore delegato che non svolga diligentemente i suoi compiti, ciò evidentemente non significa che consumi necessariamente dei reati, come può allora il sindaco valutare se i segnali che percepisce siano effettivamente rivelatori della volontà di commettere un reato ovvero di semplice negligenza (penalmente irrilevante)?
Su questi temi non si riescono a dare delle risposte sufficientemente delimitate e univoche è perché spesso ci si trova di fronte a contestazioni di bancarotta sostanzialmente “preterintenzionale”: se si confonde il grado di diligenza con il grado di conoscenza, o addirittura di conoscibilità (“se non sei diligente sei consapevole, il che non è affatto vero”), la prova rischia di essere un boomerang perché volta a dimostrare che vi è stato un controllo pregnante, ma con ciò si prova nella sostanza anche l’accettazione del rischio (e quindi il dolo eventuale).
Vi è una naturale diversità tra il volere ed il non volere un evento: per fare un esempio banale il sindaco che va in vacanza, con ciò accettando il rischio che nel frattempo venga commesso un reato, perché magari aveva captato un qualche “indice di rischio”, dovrebbe essere chiamato a rispondere del reato commesso dall’amministratore?
La risposta dovrebbe essere negativa nell’ipotesi in cui il contegno del sindaco in vacanza sia inquadrabile nei limiti della colpa, ma spesso non è così e si interpreta questa mancanza di diligenza come una sostanziale assunzione del rischio per far ricadere il tutto nelle maglie della responsabilità da reato rispetto alla quale la prova del dolo (ancorché eventuale) è comunque necessaria.
La discrezionalità valutativa tra dolo e colpa regna spesso sovrana.
- Presupposti normativi e legittimazione attiva alla tutela civile in sede penale
Giova anche qui riassumere quale siano le regole che presiedono all’azione civile in sede penale da parte delle procedure.
Com’è noto, l’articolo 240 L. Fall. prevede la possibilità che un curatore/commissario possa costituirsi parte civile nei confronti, tra l’altro, dell’organo di controllo agendo sia in forza della azione sociale di responsabilità (2393 cc) sia in forza di quella riservata ai creditori sociali (2394 c.c.), assommando il rappresentante della procedura la doppia veste a tutela di entrambi gli interessi sottesi a queste due azioni.
L’interesse di una procedura concorsuale è quindi diretto a costituirsi parte civile per vedere promosse le azioni di responsabilità in sede penale connesse ai reati di bancarotta fraudolenta, più tipicamente, ma non solo, per esempio anche il riscorso abusivo al credito o la concessione abusiva del credito (per dovere si sintesi si rinvia all’art. 218 L. Fall.).
Questa azione riservata alla curatela o a qualunque altra procedura fallimentare è una riserva di legge a favore appunto del soggetto che li rappresenta che può trovare un suo sostituto “anche nel creditore sociale” solo se e quando la procedura non si è costituita, per dirla in gergo solo in via sussidiaria.
In forza invece del secondo comma dell’art. 240 L.F. i creditori uti singoli potrebbero tipicamente costituirsi parte civile per un’azione e un danno a loro esclusivamente e rispettivamente riservata e causati (verdi articolo 2395 c.c.).
Secondo la giurisprudenza corrente quest’azione riconosciuta ai creditori sociali non riguarda la bancarotta semplice, ma esclusivamente quella fraudolenta giusta il richiamo tassativo della norma che non consente interpretazioni estensive se non previste espressamente, vista la tassatività del precetto penale.
Il motivo di queste costituzioni è quindi funzionale a vedere esercitati i diritti connessi all’art. 185 c.p. che sinteticamente prevede che “ogni reato, che abbia cagionato un danno patrimoniale o non patrimoniale, obbliga al risarcimento il colpevole e le persone che, a norma delle leggi civili debbono rispondere per il fatto di lui.”
Il diritto che deriva dall’articolo citato del codice penale è in realtà una rivisitazione civilistica degli effetti dell’art. 2043 c.c. e si collega strettamente al disposto dell’art. 187 c.p. quanto a destinatari delle azioni “i condannati per uno stesso reato sono obbligati in solido al risarcimento del danno patrimoniale o non patrimoniale” (art. 187 co. 2 c.p.p).
Questo è l’impatto e le conseguenze per un collegio sindacale nella misura in cui fosse condannato, appunto, per dei reati, da cui ne discenderebbe una solidarietà passiva assoluta con gli amministratori, o con altri soggetti concorrenti nel reato, sul presupposto che, per il legislatore, ciò che conta è l’unicità dell’evento dannoso più che l’unicità dell’evento produttivo. Ne deriva che dell’evento dannoso ne debbano rispondere tutti i soggetti corresponsabili.
Senza dilungarsi oltre su questi principi generali, è sufficiente qui rammentare che la costituzione di parte civile consente alla procedura, a mezzo anche del suo avvocato, di diventare un’autentica ed effettiva interlocutrice processuale nel relativo processo penale con tutti gli effetti più tipici che vanno dalla possibilità di introdurre delle prove a sostegno delle proprie ragioni, anche in punto quantificazione dei relativi danni, piuttosto che ricorrere al Giudice penale per vedere tutelate le proprie ragioni di credito con i più tipici mezzi di conservazione della garanzia patrimoniale quale i sequestri conservativi costruiti in termini di tutela sempre con le solite sfumature tipicamente del processo civile correlate al fumus e al periculum per vedere protetto l’obiettivo di non vedere disperso il patrimonio del debitore nell’egida di cui all’art. 2740 c.c..
A queste tutele più frequenti ne seguono altre più tipiche quali le revocatorie penali (art. 192-193-194 c.p.) piuttosto che quelle di partecipazione a tutti gli effetti agli esiti del processo, financo alla possibilità di impugnare la sentenza che non avesse dato soddisfazione alla parte civile.
Obiettivo del presente lavoro però non è soffermarsi sugli aspetti strettamente processualistici connessi alla tutela civile in sede penale, quanto comparare le differenze, o per meglio dire i pro e i contro, della tutela civile in sede penale piuttosto che nella sede più consona per coglierne, in una sorta di moto a pendolo, quali potrebbero essere i vantaggi per una procedura nel promuovere queste azioni contro i sindaci nelle due diverse sedi e in termini esattamente speculari, appunto come fosse un moto a pendolo, quali sono i vantaggi opposti per i sindaci nel difendere la loro posizione sempre nelle due diverse sedi.
- Differenze ovvero pro e contro rispettivi dell’azione civile in sede civile e azione civile in sede penale. Ricadute processuali e strategiche. Ipotesi in cui vi sia un’identità del fatto fra le due azioni civili in sede penale e in sede civile.
L’assunzione o la confutazione di questo articolo si incentra su questa apparente contraddizione del brocardo ormai non più attuale della “unità della giurisdizione”.
Si potrebbe infatti assumere che, in presenza di uno stesso fatto illecito, accertato in sede penale o in sede civile, le ricadute in termini risarcitori per una procedura ovvero le ripercussioni per i sindaci dovrebbero essere in termini di quantificazioni dei danni sempre le medesime, giustappunto l’identità del fatto illecito.
In realtà non è così e gli esiti dell’accertamento della responsabilità sull’identità del fatto possono essere diversi a seconda che ci si concentri nel processo penale o nel processo civile non soltanto in termini di quantum della responsabilità ma anche in termini di an, il che è la più grande smentita nell’unità della giurisdizione.
Su questa esatta premessa, scegliere l’azione civile in sede penale ha per un verso una serie di oggettivi vantaggi, per esempio:
- La parte civile si “accoda” al PM quindi indirettamente si accredita (se e quando quella Procura è ben vista dal Tribunale penale), ancorché spesso si dimentichi che la natura “pubblica” di una procedura che agisce per la riscossione di un proprio credito nell’interesse dei creditori sociali è davvero dubbia nella misura in cui la si equivalga ad una parte pubblica terza, priva di interessi, laddove invece è più facile avvicinarla a un normale esercizio di tutela del proprio credito negli interessi dei creditori sociali, divenendo portatrice di un autentico interesse di parte, checchè se ne dica.
- Beneficia dei contenuti degli atti a sorpresa del PM, tipo sequestri o perquisizioni, che possono portare a dei risultati di reperimento di documenti anche contro la volontà degli interessati (cosa che sarebbe impossibile in sede civile dove ognuno produce quello che conviene lui), avvantaggiandosi pertanto degli effetti a sorpresa quanto ad acquisizioni relative.
- Idem per le intercettazioni dove magari si apprendono “opinioni espresse in libertà” senza filtri di avvocati o strategie difensive e magari contra sé, scoprendo, magari da delle prove del tutto spontanee, o quantomeno giudicate come tali, ruoli e complicità omissive anche da parte dell’organo di vigilanza, mai con altrettanta facilità provabili all’interno di un processo civile dove vi è la disponibilità della prova talché è impossibile che un soggetto produca una prova se non è nel suo interesse produrla.
- In altre parole, l’impatto di queste prove a sorpresa può essere devastante per scardinare una maginot difensiva che magari nel processo civile si avvale di ostacoli anche formali o decadenziali per negare la insussistenza dell’onere della prova in ordine alla responsabilità collegiale.
- L’assunzione dei testi in sede penale è sicuramente più veritiera perché è sotto la spada di Damocle della falsa testimonianza mentre invece in sede civile e ancor più in sede arbitrale, non ha questa cappa di soggezione.
- Le acquisizioni delle prove possono essere o “illegittime” nella forma, per esempio la Procura sequestra una contabilità nera da una pertinenza locali di una segretaria che magari non è neppure imputata e non dovrebbe essere perquisita, ma di fatto verosimilmente la prova resta nel processo al di là delle eccezioni, oppure, nel contenuto, si attribuisce un “giudizio” sull’operato dei sindaci in termini illegittimi dentro le indagini condotte dalla Polizia Giudiziaria e anche se queste non potrebbero e sarebbero illegittime (proprio perché sono rappresentate da giudizi, estranei alla sfera dei testimoni che dovrebbero raccontare solo dei fatti) sostanzialmente condizionano la successiva deposizione dei testi i quali, davanti allo spettro della falsa testimonianza, hanno sempre difficoltà a contraddire quanto già detto o presunto tale anche se acquisito illegittimamente, come detto.
Quante volte ricorre nell’aula di giustizia l’amletico dubbio, sempre risolto a favore dell’accusa da parte del teste, quando, tra l’alternativa di sfidare “Procura e Tribunale” assumendo anche il rischio di smentire delle dichiarazioni già rese con le conseguenze di vedersi contestato il reato di falsa testimonianza, si preferisce il commodus discessus di dire “ah sì, sì, sì, se ho detto quello che lei mi contesta quella volta, evidentemente questa è la verità!” e con ciò, evitando ogni rischio, ci si esclude da conseguenze spiacevoli e personali e si conferma anche quello che magari non è stato detto inizialmente in dibattimento e non è la verità reale. Non è un caso che l’amministratore di fatto (proprio perché a monte c’è un giudizio) ricorra più in sede penale che in sede civile, a riprova di una sorta di “ipocrisia di sistema”.
- La verità è che le discussioni, con trattati e trattati, sul significato della cross examination è un grande falso storico se si confronta con la realtà dei processi dove, se la si nega fin da principio in sede di indagini preliminari, di fatto, la si mortifica anche rispetto all’impatto processuale, quantomeno rispetto ai “testi chiave” già ragionevolmente assunti in sede di d’indagine, magari anche più volte, dalla Procura e dalla Polizia Giudiziaria senza contraddittorio difensivo appunto, con deposizioni che diventano poi immarcescibili/non si contraddicono più. Al solito un gran parlare teorico, ma senza ricadute pratiche. La realtà delle cose è sempre diversa, così come è innegabile che gli strumenti di “soggezione” che possono avvenire in sede di indagine sui testi sono ben più significativi di quelli che possono avvenire in dibattimento, tanto più in persone che davanti a una verbalizzazione altrui di un Pubblico Ufficiale, è difficile che trovino il “coraggio” di dire: “no, guardi, io non volevo dire questo o forse volevo precisare qualcosa di diverso…” e l’unico loro desiderio è firmare il verbale e di tornare a casa quanto prima possibile senza conseguenze, al punto che nell’esperienza professionale quotidiana tante volte è capitato che la persona non avesse neanche capito o letto cosa avesse dichiarato fino in fondo e per le conseguenze che ciò produce.
- Le iniziative della costituzione di parte civile sono sostanzialmente senza costi accodandosi come detto al PM e giovandosi della sua attività di indagini.
- Anche un ordine di acquisizione che proviene dal giudice penale, sia in sede di indagini preliminari che in sede dibattimentale, rappresenta uno spettro/preoccupazione. Se proviene dal giudice civile meno.
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Tutta questa lunga esposizione parrebbe orientare nel senso che la sede penale debba sempre privilegiarsi da parte delle procedure concorsuali, ma, in realtà, ci sono anche svantaggi che possono appunto diventare vantaggi per la difesa dei sindaci giusta il moto a pendolo della strategia processuale (rectius uno svantaggio per la procedura è un vantaggio per il sindaco e viceversa. Anche se ciò non vale sempre).
- Per esempio si eredita l’imputazione sbagliata del PM senza avere possibilità di modificarla e la si subisce per tutta la durata del processo, magari per tre gradi di giudizio, con il rischio di arrivare al termine del terzo grado e, se “è andata male”, appunto si sopporta l’imputazione errata e, se “è andata bene”, si deve ricominciare tutto daccapo perché nel frattempo il processo penale è andato in prescrizione. Del resto se l’accusa è formulata male, la difesa ha comunque interesse a tenerla in piedi per tutti questi scopi dilatori.
- Il processo penale è vero che non ha i costi “personali” del processo civile, ma richiede la partecipazione a delle udienze che magari non pertengono ma ti costringono di fatto ad essere presente con costi conseguenti.
- Stare nel processo penale se e quando si ipotizza una bancarotta distrattiva comporta di vedere assunto come presupposto nella fattispecie il dolo dei sindaci e per l’effetto la certezza che la relativa assicurazione non pagherà mai un danno, non essendoci allo stato un contratto di assicurazione che copra il dolo quanto meno in Italia (dubbi all’estero ancorché sarebbe opportuna l’introduzione di una sorta di traslazione del rischio d’impresa, con oneri fissi sulle assicurazioni a beneficio di tutti i terzi creditori anche rispetto alle responsabilità sindacali).
In pratica sostenere a spada tratta la tesi del dolo, costituendosi parte civile, diventa un pretesto per l’assicurazione quando vede che c’è questo tipo di imputazione per non pagare.
- In altre parole, se i sindaci non sono in sé “patrimonialmente dotati” e si vuole “accedere ad altri convenuti” che li garantiscano, la scelta di stare nel processo sostenendo le tesi dell’accusa significa sposare la sussistenza del dolo necessariamente e di escludersi dalla possibilità indennitaria delle assicurazioni. E’ in realtà un percorso irreversibile perché una volta che l’assicurazione ha detto no per il dolo non torna più indietro se non con sentenza che lo esclude. Del resto potrebbe essere un interesse sul tema non solo di chi promuove il recupero ma anche di chi lo subisce di veder escluso questo rischio per vedersi coperto dalle garanzie citate da terzi creditori.
- Quando poi c’è una imputazione di bancarotta fraudolenta il giudice penale ha per sua natura interesse a dire se c’è o meno il dolo, non a soffermarsi se c’è comunque una colpa o la si esclude, salvo appunto che la bancarotta distrattiva non possa diventare semplice ma anche questo non è automatico e dipende se il tipo di imputazione di bancarotta distrattiva possa derubricarsi in quella semplice senza comportare modifiche delle imputazioni incompatibili dal rito penale.
- Dentro il processo penale si discute poi naturalmente di responsabilità quindi i distinguo sulle manleve offerte da terzi (tipicamente quella resa ritualmente dalla società a favore dei sindaci) non valgono piuttosto che i regressi verso altri soggetti co-obbligati non hanno ragione di esistere.
- C’è da considerare la durata, come detto, nel tempo con tutti i relativi costi, con gli esiti dilatati nel tempo e con il rischio che anche la responsabilità penale, se accertata, non si accompagni ad una liquidazione del danno per difetto degli strumenti idonei allo scopo nel processo e/o perché non vi è interesse del giudice penale accertare quanto è stato il danno, ma solo la responsabilità. Di fatto vi è la possibilità si rimetta al giudice civile al riguardo e pertanto vi sia un’affermazione di responsabilità solo in astratto, non in concreto.
- Ciò comporta il rischio ad una remissione al giudice civile e ancora una volta con una dilatazione di tempi.
- Difficile ipotizzare, come detto, polizze assicurative omnicomprensive e/o con tetti di responsabilità idonei allo scopo nel processo penale.
- Anche la transazione sulle pretese della parte civile vanno valutate quanto ad estremi e modalità perché se un sindaco per esempio transa personalmente con la parte civile con la logica di escluderla come interlocutrice processuale (non potendola escludere automaticamente come avverrebbe nel processo civile), va detto che questa rimarrebbe nel processo per gli altri due sindaci e anche se la parte civile si impegnasse a “concludere” (cioè chiedere la condanna ed il risarcimento dei danni) solo nei confronti degli altri due, concludendo inevitabilmente sugli altri due membri del collegio sindacale, di fatto è come se avesse concluso anche sul terzo con il quale ha transato, sotto il profilo della responsabilità penale, giusta la natura collegiale dell’organo all’interno del quale è sempre difficile ipotizzare responsabilità individuali se non sono collettive o escludere responsabilità individuali, salvo prove specifiche di dissenso di difficile verificabilità se non risultano in termini documentali nei relativi libri.
In sintesi o la transazione riguarda tutto l’organo e tutti i componenti, oppure un risarcimento parziale, al di là di tutte le problematiche della solidarietà magari rinunciata sulla sua sola quota di responsabilità (leggesi transazione sulla quota anziché sull’intero risarcimento del danno), non preserva il sindaco che ha trovato una transazione dal rischio di una condanna penale senza danni. E’ necessario quindi a questo scopo che la transazione sia omnia per tutto l’organo.
Nel contempo il sindaco che non ha patrimonio ed ha solo assicurazioni, non ha un grande interesse a trattare in sede civile tanto non rischia nulla a titolo personale, ma in sede penale, invece, la sua non solvibilità non esclude la responsabilità e dal che cambia lo scenario e anche il suo interesse/convenienza a reperire denaro comunque e “altrove” per avere il vantaggio di avere un interlocutore processuale contrario in meno e/o attenuare la pena.
- Il penale inacidisce ancora di più i rapporti e anche il risarcimento del danno legato alla provvisionale tanto più che nel primo grado è privo di parametri certi sulla relativa liquidazione.
- C’è poi il problema dell’impatto/rischio di una provvisionale in una sentenza che andasse in prescrizione.
- Vi è un impatto mediatico però che è a favore del processo penale e che il sindaco soffre quando è ipotizzata una sua responsabilità in concorso in termini rischio/responsabilità.
- Si consideri peraltro che un sindaco che a causa del penale perde il suo lavoro, perde anche la sua fonte di reddito per risarcire.
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- Ipotesi in cui vi siano delle differenze tra le due azioni civili in ragione delle diverse quantificazioni giuridiche sottese al diritto penale e civile sottostanti
Quanto è stato oggetto di trattazione concerne, come detto, il caso in cui vi sia un’esatta identità del fatto illecito in sede civile o in sede penale.
Temi molto più delicati e complessi diventano quando si deve operare una distinzione tra la responsabilità civile che chiede la colpa e quella penale che quanto meno per l’ipotesi delle bancarotte fraudolente richiede il dolo.
Quindi lo stesso fatto se contestato in sedi diverse necessita della prova del dolo in una sede e si può accontentare di quella della colpa in altra.
Ma non è sempre facile distinguere tra il dolo e la colpa: in termini penalistici vi è stata una recente discussione pseudo chiarimento dopo la sentenza della Cassazione a Sezioni Unite Tyssen Group, la cui notorietà ci esime dalla relativa citazione, che ha appunto declinato quando dovrebbe esserci la colpa cosciente e quando invece il dolo, ma non è facilmente traducibile nell’esperienza del sindaco anche perché con la sentenza citata la distinzione tra dolo e colpa “portava” comunque ad una condanna, ancorché di diverso tenore quanto a gravità.
Appare difficile, mutatis mutandis, applicare questo criterio sulla bancarotta distrattiva: per esempio potrebbe essere in colpa cosciente il sindaco che magari negligentemente non vigila come dovrebbe perché è convinto per la sua esperienza che avere tanti collegi sindacali non impedisce lui di esercitare la sua corretta vigilanza; in verità questo comportamento può essere agevolmente interpretato anche come dolo eventuale con le stesse motivazioni di fatto.
Il tema della colpa è poi sensibile anche nel caso in cui lo stesso fatto possa costituire un caso di bancarotta semplice o appunto un caso di responsabilità civile colposa perché secondo la giurisprudenza penalistica della bancarotta semplice ci deve essere come presupposto della responsabilità (penalistica) sempre la gravità della colpa stessa. Distinzione/traduzione che non è propria naturalisticamente presente del sistema civilistico. In realtà non è ben chiaro quali siano i rapporti tra la bancarotta semplice e la responsabilità del sindaco sia perché di solito la bancarotta semplice non la si estende mai al collegio sindacale, sia perché c’è una norma della bancarotta semplice che parla dell’inosservanza dei doveri/obblighi che potrebbe trovare praticamente coerente applicazione con qualunque ipotesi di inadempimento civilistico, ma di fatto non viene mai così interpretata (224 co 2 L.F). Fortunatamente per i sindaci.
Resta peraltro fermo che nel penale c’è la possibilità di allargare il petitum dei danni chiedendo il cosiddetto danno morale che è il danno da reato che in sede civile non si chiede, amplificando così l’ammontare del danno. Peraltro in sede civile vanno anticipati i costi delle cause e chiedere dei danni troppo elevati può significare essere di fatto paralizzati nell’interesse a chiedere la registrazione della sentenza se e quando non vi fosse certezza della copertura patrimoniale da parte del destinatario dell’azione per gli anticipi impositivi fiscali, con il rischio che, quello che sarebbe stato disponibile allo scopo, vada a favore dello stato e non a favore dei creditori sociali.
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Tutto quanto trattato introduce la valutazione strategica anche della terza variante rispetto alle altre due (stare nel processo penale con l’azione civile o promuovere un procedimento civile autonomo) perché non è ben chiaro che cosa succeda sia delle prove acquisite in sede penale trasferite nel civile sia della sentenza pronunciata nel penale rispetto al civile con tutte le variazioni conseguenti.
Per esempio la colpa grave del processo penale è sicuramente colpa anche in sede civile? Così si dovrebbe concludere a logica.
Tutto questo si complica se consideriamo le relazioni tra l’azione civile in sede penale e quella in sede civile con tutti i conseguenti mutamenti di rotta possibili e fino a certe scadenze. L’art. 75 c.p.p. spesso è un autentico sudoku interpretativo per gli effetti che comporta allo scopo. E tutto questo si aggrava appunto nella parte in cui, come sappiamo, non è chiaro se si possa fare “due” azioni civili nella doppia sede distinguendo il petitum (solo danni morali in sede penale, danni patrimoniali in sede civile) o ciò costituisce esercizio emulativo del proprio diritto di credito? Lo stesso rispetto a alla causa petendi la cui formulazione e delimitazione non è facile distinguerla tra penale e civile quando per esempio la responsabilità in sede penale è legata ad un aggravamento del dissesto ma in sede civile è legata a disposto di cui all’art. 2486 c.c.
Quindi anche la soluzione intermedia di tenere i piedi in più staffe non è esente da rischi. Peraltro i danni morali vengono liquidati spesso in termini equitativi e anche questi costituiscono una incognita se valga la pena o meno coltivarli. Certamente sono “condizionati” dall’impatto mediatico che è oggettivamente più forte nel processo penale rispetto a quello civile.
Il giudice nel giudizio penale si sente “pressato”, in quello civile di meno dal “rumore” mediatico.
L’argomento viene “sdegnosamente rimandato al mittente” da parte dei giudici, ma ci sono studi psicologici che non hanno dubbi in questo senso, valga per tutti Kahneman “Rumore”.
- Conclusioni
Incertezza assoluta delle strategie e dei risultati conseguenti e valutazione che non si può mai codificare con regole assolute e per tutti i casi ma da attualizzare nella “personalizzazione” della fattispecie.
“La legge è uguale per tutti come la pioggia che cade ma c’è chi ha l’ombrello e chi no”.
Luca Ponti