Quando si parla di “passaggio generazionale” si pensa subito alla successione mortis causa o, quantomeno, all’anticipazione della successione, ma sempre intesa come trasferimento della ricchezza dal padre al figlio.

In verità, quello che il passaggio generazionale dovrebbe preoccuparsi prevalentemente di tutelare non è tanto la conservazione della ricchezza all’interno della famiglia (questo semmai è un effetto, ma non l’obiettivo primario), quanto la ricchezza (intesa come continuità, efficienza, rimuneratività ecc. ecc.) dell’azienda familiare.

Un vecchio detto popolare sosteneva il sinallagma inversamente proporzionale tra la ricchezza personale dell’imprenditore e quella dell’azienda “Azienda ricca, imprenditore povero – Imprenditore ricco, azienda povera”; se questo può essere parzialmente vero, l’esperienza delle iniziative imprenditoriali di maggior successo ci dimostra che se viene primariamente perseguito l’obiettivo di preservare il valore aziendale, anche il patrimonio dell’imprenditore ne viene conseguentemente tutelato e arricchito.

In un intervento di qualche anno fa in un’opera collettiva relativa al “passaggio generazionale” scrivevamo (Impresa Familiare e Passaggio Generazionale – Casi a Nord Est, edito dal Sole 24 Ore): “Le imprese, soprattutto estere, interessate all’acquisizione di società target autoctone, “sbarcano” in Italia e talvolta non riescono a capire dove si annida il valore delle imprese italiane, per così dire non riescono, per cultura e tradizione, a percepire il valore assoluto che può essere riconosciuto a un individuo-gestore all’interno di un’organizzazione sociale, deprivando la rilevanza del contributo dei singoli protagonisti aziendali nella convinzione che essi possano esser agevolmente sostituiti”.

Questa sottovalutazione del “capitale umano” talvolta si diffonde anche all’interno della famiglie imprenditoriale, quando si pensa che l’azienda sia già così ben strutturata (grazie al lavoro dei padri, se non dei nonni) che il “timone” possa passare facilmente ai figli/nipoti senza soluzione di continuità.

Talvolta questo accade, ma molto più spesso invece l’effetto è devastante e, quindi, invece di passare una “miniera d’oro” si passa una “pentola a pressione”, pronta a esplodere da un momento all’altro.

Ecco perché una pianificazione oculata del trasferimento generazionale del controllo aziendale è importante non solo per i benefici fiscali che ne derivano agli eredi, ma soprattutto per garantire la continuità aziendale con il mantenimento di quegli elevanti standard di qualità ed efficienza che i padri e i nonni hanno saputo imprimere alla loro azienda.

D’altra parte, in un’epoca in cui i cicli economici si sono ridotti da qualche decina di anni a pochissimi anni (talvolta anche 3/5, non di più), non è più davvero pensabile fossilizzarsi su una visione economico-aziendale statica, ma occorre adattare la propria vision all’incessante e imprevedibile divenire, occorre in sostanza un management sempre capace e tutt’altro che pigro.

Ecco dunque che tutti quegli accorgimenti che per anni sono stati adottati per finalità meramente fiscali piuttosto che per “aggirare” le strette maglie delle quote che il nostro diritto successorio riserva obbligatoriamente ad alcune categorie di eredi, diviene un metodo anche per gestire il trasferimento generazionale quale corsia di accompagnamento dell’erede a sostituire l’ascendente in una gestione parimente qualitativa e di successo.

Istituti come il Trust gestionale, la holding di partecipazione, la società fiduciaria, ma anche l’usufrutto sulle partecipazioni o altre forme di controllo sulla gestione dei diritti amministrativi ed economici sulle partecipazioni diventano importanti strumenti per disciplinare il passaggio generazionale.

L’erede, fintanto che non sarà pronto ad assumersi la responsabilità della gestione, potrà essere sostituito o affiancato da manager professionali di comprovata esperienza i quali, grazie anche a piani di incentivazione della remunerazione fondati sui risultati, sapranno gestire al meglio l’azienda per traghettarla nelle mani del futuro imprenditore e, se questo non dovesse mai accadere, verso una collocazione sul mercato che garantisca la prosecuzione aziendale e una adeguata remunerazione del capitale per i suoi soci.

Il ventaglio delle soluzioni è molto vasto e basta solo capire quanto si voglia privilegiare la “distanza” tra il proprietario (o futuro proprietario) dell’azienda e la gestione, piuttosto che una progressiva commistione (a pari passo con la crescita professionale e umana dell’erede).

Tornando al principio di questo intervento, il passaggio generazionale non dev’essere più interpretato quale passaggio generazionale della “ricchezza” (intesa come personale) quanto conservazione della “ricchezza” (intesa come aziendale), solo in questo modo si garantirà l’una (la ricchezza personale) quale conseguenza dell’altra (la ricchezza aziendale) e, tornando ai detti popolari, si avrà la “botte piena e la moglie ubriaca”.

Luca Ponti, Paolo Panella, Francesca Spadetto, Luca De Pauli