La storia

 

Entra in Studio un imprenditore arcinoto nella città, provincia, regione, macroregione ecc.

Una persona che ha costellato la sua vita di successi magari anche ereditando l’azione dal padre, dal nonno, dal bisnonno.

Occupa migliaia di posti di lavoro. Casa ad Ibiza. Aereo personale. Yatch a Montecarlo.

Dubbi sulla sua effettiva residenza fiscale. E’ considerato un vincente ma recentemente la sua società, il suo gruppo è entrato in crisi per ragioni non sempre dipendenti dalla sua gestione, anche per dinamiche legate alla globalizzazione, alla difficoltà di convertire il mercato all’estero, ad una squadra non motivata, spenta, incolore, senza più motivazioni.

Il passaggio generazionale non c’è stato, non ha funzionato. I figli delfini non si sono rivelati all’altezza.

Anche loro non avevano il sacro furore o la volontà di costruire/modificare quello che era un futuro incerto in uno roseo, difficile avere il coraggio di cercare fuori dai propri circuiti familiari, manager estranei o esterni alla cerchia del proprio DNA.

Lui avrebbe voluto controllare a vista il ciclo produttivo, commerciale, finanziario delle sue aziende anche quando questo non è pi possibile viste le mille problematiche nuove derivanti da un mondo che è cambiato e che richiede anche fare impresa segua le stesse regole.

Rendite di posizione non esistono più, idem per i consolidi. Ogni conquista deve essere giornaliera.

E invece (inaspettatamente… solo per lui) tutto entra in crisi, tutto così irreversibilmente perché magari i primi segnali non sono stati colti per tempo. Non si voleva vedere. Non si voleva riconoscere di aver bisogno di qualcuno.

Un partner industriale piuttosto che uno finanziario. Adesso tutto è precipitato e si entra nella stanza.

Davanti al professionista si presenta una persona non più malata di onnipotenza come accadeva di vederlo quando entrava magari anche nel bar del centro e monopolizzava l’attenzione dei presenti. Ordina ai dipendenti un Kipfel…un imprenditore non mangia una semplice brioche… con il “solito”. Un cappuccino veloce, non c’è tempo, dichiamo il solito perché l’imprenditore è moto conosciuto da tutti e tutti i dipendenti sanno chi è.

Al bar la mattina, come al ristorante, come in qualsiasi negozio. Questa è l’immagine della persona.

Oggi davanti al professionista appare invece sconfitto, deluso incattivito. E’ solo ed abbandonato da tutti. Il suo status symbol sociale non è più tale. Si accompagna a degli avvoltoi che spesso succhiano l’ultima parte dei cadaveri aziendali, oppure si affida a professionalità arcane, chiaroveggenti, fattucchieri, piromani gestionali, professionisti improvvisati o attrezzati proprio per l’improvvisazione.

Gladiatori del rischio perché senza patrimonio e sena fissa dimora e con domicilio …piazza Libertà/Casablanca/Marocco cioè irreperibili.

L’imprenditore non sa più cosa deve fare, al professionista riferisce che la colpa di tutto quello che è successo non è sua, è sempre degli altri, magari politici che non l’hanno aiutato dopo che aveva provveduto a ricambiarli con mille assunzioni facili, il sindacato non capisce che i tempi sono cambiati e cerca solo garanzie in un momento in cui non ci sono, chiede spazi per fornirle e non capisce che si naviga a vista.

Le banche latitano perché il mercato è in depressione, i finanzieri con indici di appetibilità non ci sono. Le istituzioni hanno altro a cui pensare. Lui si trova solo. Ma è più solo di quello che sente.

La crisi di azienda però on è ancora metabolizzata, non ha ancora perso il senso del suo limite gestionale e non avendo consapevolezza delle sue responsabilità non sa neppure come approcciare alle necessarie diversità.

Anni e anni di errori su errori di gestione vengono rimossi. Anche le inerzie e le spiegazioni trovano risposte incoerenti, sempre estranee ad una valutazione di consapevolezza. Ha già subito la mortificazione di aver sciupato un patrimonio familiare accumulato per generazioni, il bisnonno è stato un protagonista della campagna dei mille ed è stato uno dei primi ad introdurre le macchine nel tessile. Ha una crisi di identità inconscia. Chiede aiuto. Reclama aiuto. Ma non sa nemmeno lui che cosa vuole.

Ha talmente annacquato il polso dei dati aziendali. Parla dell’art. 67 piuttosto che dell’art. 182 bis, piuttosto che dall’art. 161 L. Fall.

Ma in realtà dà i “numeri” perché non è in grado di avere la lucidità di capire il passo indietro e la rivisitazione necessaria che deve subire l’azienda vestendo questi nuovi abiti.

Parla al professionista ma non riesce a confessare tutto nemmeno a lui.

Probabilmente non l’ha confessato nemmeno a sé stesso. E’ per definizione reticente.

Cerca nei suoi monologhi non un dialogo ma scusanti, complicità, giustificazioni.

In verità ha paura del tuo giudizio morale e allora abbassa lo sguardo, comunque perso, non è più il motivatore della Steve Jobs che parla, incita, detta i ritmi come fosse Baran e Sambo nella medaglia d’oro al canottaggio.

Hop, hop non esistono più. Non ha bisogno di mostrare slides, organizzare kick off meeting o brainstorming… Ha capito che anche parlare il dialetto rovigotto forse lo rende più libero.

E’ un vinto, uno sconfitto che esce di scena ingloriosamente dalla hall of fame dei suoi familiari. La pecora nera che ha perso tutto.

E’ un fallito.

Qual è l’atteggiamento che deve assumere allora l’avvocato?

Perdono e misericordia non fanno parte del diritto civile o del diritto penale. Però sono sentimenti sociali che dovrebbero trovare ingresso in tutte le situazioni. Questo non solo per ragioni etiche nei confronti diretti di queste persone ma anche perché altrimenti esse si presentano perse in un vuoto di inconsapevolezza che non consente a loro più neanche di capire chi sono, dove sono o dove potrebbero andare.

In verità non è un dramma solo alla Chatwin, perché queste persone saranno irrimediabilmente smarrite nel loro viaggio professionale ed esistenziale, ma è anche una totale perdita di identità ed emarginazione, che a sua volta spesso produce un effetto a riflesso e a cascata anche alle persone care che stanno accanto loro. Sono infatti frequenti e vicine a questi fenomeni le ghettizzazioni di famiglia che producono deflagrazioni finali anche rispetto ai vincoli coniugali piuttosto che ai conflitti con i figli, a tacere di tutto il mondo delle cause / dei processi che si agitano attorno a questi soggetti, individuando responsabilità di ogni genere e specie quando il tutto, molte volte, dipende anche da una serie di concause non sempre immediatamente riconducibili ad un giudizio di responsabilità personale e giuridica.

Gli studi più moderni in economia hanno individuato che l’analisi della stragrande maggioranza dei dissesti aziendali ha chiavi di lettura molto più poliformi, complesse e difformi da esegesi strettamente collegate a formule demagogiche quali: “ha rubato, ha distratto, è morto ricco ecc.”.

Risultato finale è che c’è questa fascia di persone che viene allontanata alla vita e che rimane una mina vagante o un costo sociale per il futuro della società con l’effetto finale che chi si avvicina a loro ugualmente si contagia, demotivandosi.

La scelta se recuperare o meno questa fascia di persone che viene allontanata alla vita e che rimane una mina vagante o un costo sociale per il futuro della società con l’effetto finale che chi si avvicina a loro ugualmente si contagia, demotivandosi.

La scelta se recuperare o meno questa fascia di persone, che in realtà è ben più vasta di quella che si potrebbe supporre perché ad essa si accomuna per alcuni aspetti anche quella dei piccoli imprenditori, artigiani ecc., è una scelta di campo. Si potrebbe dire: devono “pagare”… il mondo gira e loro hanno perso “il treno giusto”, si arrangino?

Oppure sono dei deboli che chiedono in qualche modo un aiuto e che la collettività si vuole assumere anche in una logica utilitaristica e non solo etica. Come tutte le anormali/distonie/diversità anche il dolore o il disagio deve essere allagante perché possa essere riconosciuto tale. Il valore intermedio si tollera, non si cura ma questo comporta che spesso degeneri e quando alla fine si interviene è già allo stato incurabile.

A ben vedere quando si dice che anche i ricchi pagano…c’è un sottile velo di soddisfazione che ciò accada.

E quali sono le domande esistenziali che si pone l’avvocato di risulta e alla fine?

Il diritto commerciale per consuetudine è un diritto da ricchi. Riguarda i potenti che pare non abbiano mai bisogno di aiuto in termini sociali. Hanno già gli anticorpi e le finanze per proteggersi. Dopo aver sentenziato che il denaro non è tutto nella vita, epiloghiamo superficialmente che dato che loro ce l’hanno non hanno bisogno di aiuto. In verità non è così si pensi alle liquidazioni delle quote familiari dove il danno esistenziale connesso al cambiamento di vita dopo aver lavorato per anni nella propria società familiare è qualcosa di più e di diverso dal semplice valore patrimoniale di liquidazione della quota.

Ancor più nel caso di dissesti sociali.

Il sistema si deve chiedere se queste situazioni di caduta in disgrazia sempre più allarmanti, sempre più frequenti, un tempo invece confinate solo ai fini d’autore, richiedano delle risposte di assistenza, non solo nella fase più tipicamente giuridica tesa a prevenire situazioni di questo genere o a eliderne le conseguenze, ma anche in quella di riconversione attraverso un processo anche di rimotivazione di persone che hanno smarrito il senso di identità sociale iniziale e solo superficialmente una debolezza prettamente economica in realtà è appunto la perdita del ruolo economico sociale.

Luca Ponti