Pragmatica della comunicazione del testimone e dell’imputato: buone prassi e cattive abitudini
L’evoluzione del processo penale e il sempre maggior utilizzo della tecnica non hanno portato di pari passo anche a una riduzione del ricorso alla prova dichiarativa. È, ad oggi, ancora vero che sono molti i reati per cui la prova testimoniale continua a rivestire un peso dirimente ai fini della decisione, ma non si può negare come si assista a un aumento dei reati economici e scientifici per i quali l’apporto di consulenti tecnici e periti[1] dovrebbe in gran parte limitare il contributo di terzi estranei al fatto. Nel corso degli anni, prove a intrinseco contenuto altamente tecnico come il test del DNA, gli accertamenti bancari fondati sulla ricostruzione dei movimenti finanziari, i rilievi geologici ecc. ecc., dovrebbero avere sempre di più limitato il ricorso alla prova testimoniale.
Così ancora non è, e la chiave di lettura dei procedimenti continua a passare attraverso l’ingenita sensibilità che nutriamo nei confronti delle prove dichiarative.
In aiuto a tale tendenza mai sopita, il contributo che le scienze psicologiche e cognitive sono riuscite a fornire alla prassi giudiziaria è stato nel tempo oggetto di frequenti e approfondite analisi[2]. Questo articolo non avrà in alcun modo, ovviamente, la pretesa di eguagliarle, o anche solo di descriverne esaustivamente le peculiarità, ma vuole riepilogare quali siano, al momento in cui si scrive, le conclusioni a cui il rigoglioso ambiente scientifico è giunto su vari temi. Si è pensato inoltre di dare al testo un’impostazione maggiormente pratica, affinché anche imputati che si ritrovino, nel corso della loro vita, inseriti all’interno delle rigide dinamiche del processo penale, siano in grado, con un po’ di allenamento, di non essere sopraffatti dall’aspro contraddittorio che è frequente infiammare gli animi nel corso del dibattimento.
Si vuole fin da ora specificare che l’articolo in questione prediligerà il punto di vista di chi il diritto non conosce e non domina perché ad esso non avvezzo, e che magari si ritrova a sostenere sulle spalle il peso di un processo penale i cui meccanismi risultano spesso farraginosi o comunque non del tutto oliati: si spera in tal modo di non ferire la sensibilità di coloro che nella vita usano interloquire con tali soggetti al fine di trarre indizi circa la colpevolezza dell’imputato, qualora nelle righe seguenti si dovessero commentare le loro prassi.
Un obiettivo cardine di tutte le deposizioni, anche quelle dei testimoni, è innanzitutto quello di risultare credibili agli occhi del giudice. Tale aspetto è fondamentale perché non è raro che i soggetti attraverso le cui parole occorre sviluppare ed elaborare fatti e fenomeni, abbiano in realtà una conoscenza solo parziale della vicenda cui riferiscono, oltre al fatto che sono costretti a raccontare solo quanto loro richiesto, rispondendo sempre secondo verità (ex art. 497 comma 2 c.p.p.)[3]. Tuttavia, per quanto tale obbligo sia un corollario della deposizione (si ricorda ai meno pratici che l’obbligo di verità sussiste solo per i testi e non anche per gli imputati, sulla base dell’antico brocardo «nemo tenetur se detegere» secondo il quale nessuno può essere tenuto ad auto-incriminarsi), non si può non notare come la dicotomia “dire la verità” – “essere creduti” passi attraverso sottili ed infinitesime percezioni che finiscono per essere dirimenti per la causa e in molti casi decisive per il futuro delle persone[4].
È in realtà innegabile come il giudice, nel valutare la credibilità dei deponenti, debba per forza valutare l’impressione che questi fanno lui, ben sapendo di rischiare di incorrere in grossolani abbagli: nella migliore delle ipotesi il travisamento delle impressioni potrà avere un valore limitato, nella peggiore risulterà completamente fuorviante[5].
Dando per assodato e scontato che la componente umana sia comunque rilevantissima all’interno del coacervo delle dinamiche processuali, nel deporre risulta particolarmente importante guadagnare progressivamente credibilità agli occhi di chi ci ascolta, e per farlo gli stratagemmi sono innumerevoli. Se ne illustrano alcuni di seguito.
- È molto importante allenare la qualità della deposizione e delle proprie argomentazioni, non solo per i difensori, ma anche per imputati e testimoni (e magari anche mariti): sono innumerevoli ed impercettibili i segnali che si trasmettono comunicando. Ad esempio, è risaputo che guardare una persona negli occhi conferisca credibilità alla deposizione e autorevolezza al comunicatore, per quanto in realtà sia ormai scientificamente acclarato che il distogliere lo sguardo non sia assolutamente sintomo di menzogna[6]. Esistono, tuttavia, indubbiamente degli indizi che permettono di inquadrare le situazioni in cui una persona ricorre alla bugia, ma questi dipendono per lo più dal contesto in cui il dichiarante vive (per esempio, è noto che gli Italiani ricorrano di frequente a movimenti frenetici degli arti, secondo alcuni studiosi per scaricare la tensione verso il suolo, mentre gli Inglesi sono meno avvezzi al movimento di gambe e mani).
È interessante, inoltre, quanto fattori che considereremmo di secondo piano, come per esempio l’aspetto fisico e la “bella presenza”, influenzino le decisioni dell’organo giudicante[7] (l’espressione “brutto ceffo” non è casuale).
Tuttavia, sul tema non c’è da illudersi troppo: Paul Ekman, probabilmente la massima autorità mondiale sullo studio della comunicazione attraverso le espressioni del volto, rileva come ormai la maggior parte dei bugiardi sia perfettamente in grado di ingannare praticamente chiunque in quasi tutti i casi, adottando specifiche tecniche e per lo più controllando i propri movimenti e argomenti[8].
- L’ordine delle argomentazioni trattate nel corso dell’esame diretto non dovrebbe essere casuale[9]: già i Romani erano ferventi sostenitori di uno schema argomentativo passato alla storia come “ordine nestoriano”[10]. Questo sistema consisteva nel rappresentare le problematiche connesse ad una situazione presentando per primo l’argomento forte, per secondo quello più debole e per ultimo l’argomento ancora più forte, quasi travolgente. Tale tecnica permetteva di concludere il discorso in crescendo, assicurandosi di non perdere fin dai primi minuti l’attenzione dell’ascoltatore (fatto che avviene non di rado iniziando la deposizione a partire dall’argomento più debole)[11].
Un’ulteriore tecnica molto apprezzata per rafforzare le argomentazioni è quella della “convergenza”, ossia fornire l’impressione che più temi trattati conducano tutti alla medesima conclusione, inevitabile conseguenza degli stessi. Tale escamotage è molto importante perché, ad esempio, può permettere a testimoni poco credibili di divenire attendibili a seguito del sincronismo delle loro deposizioni[12].
- È sempre una buona idea fornire riferimenti temporali specifici e praticamente inconfutabili, come per esempio «la sera in cui vinse lo scudetto la Juve…» o «il giorno in cui mio nipote si battezzò…». Tali riferimenti possono difatti essere utili per ancorare alla realtà una storia che risulterebbe altrimenti inizialmente poco credibile nei suoi eventi principali[13]. Anche l’utilizzo dei dialetti può essere utile, soprattutto presso i tribunali locali, sempre che si siano previamente analizzate le caratteristiche dell’uditorio (ovviamente è gravissimo, a fini comunicativi, che il giudice non conosca le voci gergali o dialettali, le quali a loro volta andranno immediatamente spiegate[14]). In generale si può statuire come la coloritura del discorso, l’arricchimento dello stesso con elementi naturali, battute, esempi e metafore, possano facilitare il coinvolgimento personale dell’uditorio[15].
- Bisogna comprendere che il fine comunicativo dell’accusa in sede di cross-examination non sia mai quello di “conoscere” più in profondità le problematiche specifiche di una situazione a lungo in divenire, ma quello di dimostrare una verità spesso “parziale” (intesa come verità di parte), non sostanziale. Nell’istante in cui inizia la comunicazione dibattimentale, la pubblica accusa sarà, nella maggior parte dei casi, già orientata decisivamente nei confronti dell’imputato nel senso della condanna. Questo perché è il primo interrogatorio di garanzia, ex 415 bis, a rappresentare il vero e proprio momento di dialogo tra le parti processuali, mentre il contraddittorio dibattimentale vede ormai definitivamente le due parti orientate a rappresentare le proprie “verità”.
Tali “narrazioni” portate dall’imputato pronto a deporre saranno parziali quanto quelle della controparte, perché non è possibile condannare una persona al di là di ogni ragionevole dubbio sulla mera base di risultanze di fatto, dati statistici, numeri e formule: è necessario sottolineare un grado di colpevolezza e rimproverabilità che legittimi la reazione penale, ergo occorrerà una rilevante acrimonia nel dialogo. Ecco perché l’imputato dovrà essere adeguatamente “allenato” ad un controesame praticamente sempre proteso all’accertamento di una sua responsabilità, anche magari pre-videoregistrando la discussione, di modo tale che si renda edotta la parte di quale sia la struttura tipica delle domande nel controesame[16] e il possibile esito[17].
Va fatta attenzione anche a un aspetto ulteriore: al testimone, magari quello della difesa, non si chiede di essere completamente imparziale, perché l’imparzialità in alcuni casi finisce solo per favorire l’accesso alla parzialità delle argomentazioni avversarie.
Non bisogna dimenticare, infatti, che anelito dell’avvocato penalista debba essere sempre l’assoluzione o la miglior difesa possibile dell’assistito: sono da criticare le “manifestazioni narcisistiche” di avvocati atte a dipanare situazioni volutamente complesse (e che quindi faciliterebbero un esito assolutorio)[18]: riformulando un noto aforisma, talvolta è peggio aprir bocca e togliere ogni dubbio su una questione, piuttosto che tacere facendo finta di non aver capito.
Chi scrive è a conoscenza che in alcuni casi tali “proiezioni estetiche” siano realmente una manifestazione ingenita nell’identità del professionista legale, un istinto primordiale, che emerge dal di dentro della psiche dell’avvocato, fino ad impedirgli di leggere l’avverarsi della situazione e la conseguente necessità di adombrarsi.
Un bravo avvocato pone domande solo quando è in grado di controllarne il più possibile le risposte: a volte è meglio rinunciare a una domanda nel corso del controesame piuttosto che porla e corroborare una versione contraria ai nostri interessi.
- È fondamentale, a parere di chi scrive, ripetere sempre quanto già detto, soprattutto cercando di far percepire che quanto si comunica non sia figlio di un discorso preimpostato, ma la inesorabile conseguenza del fluire dei propri pensieri e ragionamenti. È necessario dare sempre l’impressione di comunicare sempre le solite cose vere, utilizzando anche espressioni icastiche come “come ho già detto…”, “corro il rischio di ripetermi…”. Questo è necessario al fine di evidenziare come la verità sia unica e incontestabile, al di là di come si decida di porre il quesito.
Chiedendo la ripetizione delle risposte nel corso dell’esame diretto, inoltre, si disincentiva l’esaminatore del controesame a ritornare sul medesimo argomento (il giudice in tal caso potrebbe ritenere non necessaria la ripetizione delle asserzioni già fatte, anche solo per noia)[19]. La ripetizione permette all’interrogato di farsi sentire seguito e compreso, mettendolo anche a suo agio[20].
Il discorso può essere ribaltato per fornire un suggerimento anche nella prospettiva contraria: nell’ipotesi in cui si percepisca un’incertezza nella risposta, gli esaminatori saranno particolarmente interessati a riascoltarla, anche solo ai fini della verifica della credibilità dell’imputato, più che per magari vagliarne i riscontri in fatto[21].
- Nel corso dell’esame diretto è necessario assicurarsi che i fatti oggetto della narrazione siano stati ben compresi, al fine di elevarli ad assunti comuni per tutte le parti giudiziali. L’ideale sarebbe che, nelle deposizioni successive, quanto dichiarato da un testimone apparisse come verità fattuale e assunto a dato comune[22].
Al fine di creare un “legame” con l’uditorio, può essere anche necessario instaurare quello che Perelman definiva essere il “contatto delle menti” tra oratore e uditore, e per farlo l’oratore dovrà necessariamente affissare come termini di riferimento alcune premesse comuni comprensibili all’uditore[23].
È anche molto convincente come tecnica argomentativa il far riferimento a valori, credenze e stereotipi ritenuti universali, come il valore della famiglia, dei legami e dell’identità personale[24]. Occorre farne un uso tuttavia ponderato, onde evitare di sortire l’effetto contrario e cadere nel banale[25].
- Chi viene interrogato è importante sia a conoscenza della struttura mentale e delle competenze di chi lo interroga. Ad esempio, personalmente ho appurato sia frequente la creazione di domande con un “falso bersaglio”, un interrogatorio atto a provare apparentemente un fatto specifico, ma con domande che in realtà vogliono smontare un differente punto della struttura difensiva. Facciamo un esempio: un imputato per omicidio porta, tra le argomentazioni difensive, il fatto di essere semi incapace di intendere e volere e un alibi. Il testimone della difesa viene interrogato, in questo caso ipotizziamo dal pubblico ministero, in merito all’esistenza dell’alibi, venendogli poste delle domande al fine di sondare le sue peculiari abitudini di vita e ritualità, ad esempio domandandogli se la sera dell’omicidio fosse a casa, se fosse spesso a casa, cosa facesse a casa, se andasse a dormire presto tipicamente ecc. ecc. In tal modo non si indispone il teste, il quale crederà di star contribuendo alla creazione di un alibi per scagionare l’imputato, senza rendersi però conto che in realtà stia dimostrando che le abitudini di vita dello stesso fossero assolutamente ordinarie e banali (ergo, provando che l’imputato in realtà fosse assolutamente non semi incapace di intendere e di volere).
- Com’è noto, le risposte devono essere sempre il più concise possibile, ma in questo scritto si precisa in aggiunta come sia necessario privilegiare i «sì» e «no» ed evitare avverbi come «certamente» o «assolutamente», perché così facendo si dà alla controparte la possibilità di chiedere ulteriori specificazioni in merito alla risposta («assolutamente in che senso??» / «assolutamente che cosa??»), costringendo volutamente chi comunica a ripetere una risposta che inizialmente si aveva avuto intenzione di mantenere sul vago. L’utilizzo di frasi concise permette, inoltre, di muoversi con i “piedi di piombo” in zone inesplorate e magari impreviste nel momento della preparazione del testimone.
- Nel nostro sistema il testimone chiave viene interrogato spesso dalla polizia giudiziaria in sede di sommarie informazioni, non di rado subendo anche delle coartazioni che inevitabilmente inficiano la genuinità delle dichiarazioni. Ai sensi dell’art. 500 comma 1 c.p.p., tuttavia, le parti, per contestare il contenuto delle deposizioni fatte nel corso dell’istruttoria dibattimentale, possono avvalersi delle dichiarazioni precedentemente rese davanti alla polizia giudiziaria, magari inficiate ab origine o semplicemente non del tutto spontanee. Tali contestazioni tipicamente sortiscono una decisiva forza deterrente verso il teste affinché non vari, anche solo parzialmente, le dichiarazioni rese in precedenza.
- Imputati e testimoni devono ovviamente aspettarsi quesiti differenti nel contesto dell’esame diretto, del controesame o del riesame, che si è deciso di classificare per le finalità che questi perseguono.
- L’esame diretto ha lo scopo di far emergere fatti “inquadrati” in una versione della storia, al fine di influenzare favorevolmente chi dovrà giudicare;
- Il controesame è atto a dimostrare che i fatti asseriti nell’esame diretto non siano veri/esatti/completi ovvero che il teste non sia credibile.
- Il riesame è atto a recuperare la credibilità persa dal dichiarante nel corso del controesame.
Le domande variano nel corso delle tre fasi ed esiste una vastissima letteratura su come porre i quesiti che non si ha il tempo di coprire in questa sede[26]. In aggiunta alle osservazioni fatte in precedenza, senza pretese di esaustività, si ritiene abbiano un peso particolarmente rilevante nella costruzione del quesito la valorizzazione del fulcro della domanda[27], la creazione di un’atmosfera[28] o il non utilizzo di domande negative[29].
- Per concludere, l’ultimo suggerimento è rivolto ai testimoni: si consiglia ai testi di parte di esprimere, nella deposizione, anche le proprie valutazioni in quanto, per il principio dell’inscindibilità della prova testimoniale[30] (la dichiarazione non può essere infatti riportata “a compartimenti stagni”, ma va sempre riletta nella sua interezza), queste dovranno necessariamente essere valutate in seguito.
Ai sensi dell’art. 194 comma 3 c.p.p., infatti, “Il testimone è esaminato su fatti determinati. Non può deporre sulle voci correnti nel pubblico né esprimere apprezzamenti personali salvo che sia impossibile scinderli dalla deposizione sui fatti.”. Il confine tra “valutazione” e “dichiarazione di un fatto”, come già rilevato in passato, in alcuni casi è estremamente labile e di difficile perimetrazione[31]: rispondere «sì, la casa era sporca», «no, il conducente non era stanco» oppure «la società versava in una condizione di dissesto economico – finanziario» significa elaborare dichiarazioni che posseggono intrinsecamente anche valutazioni. Nonostante una parte della giurisprudenza si sia dimostrata più flessibile in situazioni oramai tipizzate[32], il divieto permane fino a oggi, ancora esplicito e vigente.
Non si è ancora trattata finora un’ulteriore problematica: il giudice del dibattimento ha, di fatto, sempre la facoltà di porre quesiti ai testimoni che esulino dalla mera dichiarazione di fatti a lui notori[33], allo stesso tempo precludendo alle altre parti processuali di porre loro domande, quando queste comporterebbero delle valutazioni. L’organo giudicante dovrebbe essere particolarmente accorto nell’esercizio di tale preclusione, soprattutto considerando che ogni domanda non posta costituisce la premessa di un’assenza di tutela.
All’imputato sarà poi in concreto impossibile impugnare in secondo grado la decisione avversa in prime cure, contestando che la dichiarazione/valutazione di un teste sarebbe stata decisiva, proprio perché non è avvenuta alcuna dichiarazione[34]. Dinanzi al giudice del gravame, l’avvocato si troverebbe, in tal modo, costretto a sostenere la decisività della dichiarazione che il teste avrebbe potuto fare, se sentito, praticamente confessando di essere stato a conoscenza ex ante del contenuto della deposizione.
Si precisa come delle nozioni di psicologia giudiziaria siano note, anche indirettamente o magari come mera conseguenza del lavoro ripetutosi negli anni, da parte di quasi tutti gli attori del processo penale. A parere di chi scrive è importante che l’imputato abbia contezza di alcune di queste strategie processuali, soprattutto per limitare l’alea e il pericolo di cattive impressioni che potrebbero nuocere negativamente ai fini della decisione[35].
Luca Ponti e Federico Ponti
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[1] O anche semplicemente delle relazioni tecniche e peritali.
[2] L. BATTISTELLI, La bugia in tribunale. Frammenti e appunti di psicologia e psico-patologia giudiziaria – stralci di perizie e psichiatrie, Milano, 1954, p. 4 ss.; G. GULLOTTA, A. CURCI, Elementi di psicologia giuridica e di diritto psicologico, Milano, 2000, p. 14 ss.; G. GULLOTTA, E. M. TUOSTO, Il volto nell’investigazione e nel processo, Milano, 2017, p. 27 ss.; P. PATRIZI, Psicologia giuridica penale. Storia, attualità, prospettive, Milano 1996; M. STONE, La cross-examination: strategie e tecniche, (a cura di) E. AMODIO, Milano, 1990, p. 84.
[3] G. GULLOTTA, Le 200 regole della cross-examination, Milano, 2019, p. 160.
[4] Nonostante in realtà l’art. 55 del codice deontologico forense imponga ai testimoni di non intrattenersi con l’avvocato sui fatti oggetto della causa o del procedimento diretti a conseguire deposizioni compiacenti. In astratto quindi i testimoni dovrebbero essere ritenuti tutti attendibili in egual misura.
[5] M. STONE, La cross-examination, cit., p. 85.
[6] È lo stesso art. 146 disp. att. a stabilire come “Nelle aule di udienza per il dibattimento, i banchi riservati al pubblico ministero e ai difensori sono posti allo stesso livello di fronte all’organo giudicante. Le parti private siedono a fianco dei propri difensori, salvo che sussistano esigenze di cautela. Il seggio delle persone da sottoporre ad esame è collocato in modo da consentire che le persone stesse siano agevolmente visibili sia dal giudice che dalle parti”. L’ordinamento si è in tal modo reso conto della rilevanza dell’aspetto facciale, gestuale e mimico del dichiarante. Il discorso meriterebbe approfondimenti che non si ha modo di poter fare in tale sede, dunque si rimanda in particolar modo a G. GULLOTTA, Innocenza e colpevolezza sul banco degli imputati, Milano, 2018, p. 154 ss.
[7] La letteratura sul tema è talmente copiosa da essere impossibile da riportare esaustivamente, dunque se ne presenta un sunto: il primo a dimostrarlo fu M. EFRAN, The effect of physical appearance on the judgment of guilt, interpersonal attraction, and severity of recommended punishment in a simulated jury task, in Journal of research in personality, 8, 1974, p. 45 ss., e a lui seguirono R. UDRY, B. ECKLAND, Benefits of being attractive: differential payoffs for men and women, in Psychological reports, 54, 1984, p. 47 ss.; B. DARBY, D. JEFFERS, The effects of defendant and juror attractiveness on simulated courtroom trial decisions, in Social behaviour and personality, 16, 1988, p. 3950 ss.; G. L. LORENZO, J. C. BIESANZ, L. J. HUMAN, What is beautiful is good and more accurately understood: Physical attractiveness and accuracy in first impressions of personality, in Physical science, 21, 2010, p. 1777 ss. Interessanti sono anche gli studi di H. SIGALL, N. OSTROVE, Beautiful but dangerous: effects of offender attractiveness and nature of the crime on juridic judgment, in Journal of personality and social psychology, 31, 1975, p. 410 ss., dove si rileva come in alcuni casi la bellezza sia addirittura controproducente: sono le ipotesi in cui il reo abbia utilizzato il suo stesso aspetto come mezzo per causare il reato (p.e. per il reato di truffa i due ricercatori hanno notato venisse punito più severamente l’imputato giudicato bello).
[8] P. EKMAN, La seduzione delle bugie, Roma, 2017, p. 18 ss. ha fatto molti e interessantissimi studi su come tendano a comunicare le varie popolazioni del pianeta: egli, ad esempio, cita i Siciliani, i quali gesticolano al fine di disegnare un’immagine o per mostrare un’azione, mentre gli Ebrei-Lituani lo fanno per dare enfasi a un discorso o tracciare il flusso di un pensiero (tali gesti vengono chiamati gesti illustratori). Questi segni vanno distinti dai gesti emblematici, i quali sono radicati nella cultura di ogni nazione in modo differente (per esempio “la stretta di mano”, il “pollice all’insù” o il “simbolo della vittoria”; quest’ultimo in particolar modo non è consigliato farlo nei paesi del Commonwealth). Quando una persona mente, è facile ricorra a gesti emblematici e riduca l’utilizzo di quelli illustratori. Importanti sono anche i gesti manipolatori, come la strofinata, la pizzicata, la grattata ecc. ecc., che sono sintomo di menzogna ma ai quali si può ricorrere anche in situazioni di rilassamento. Questa è la ragione per cui in linea di massima non sono un buon indicatore dello stato psico-fisico del bugiardo, nonostante risultino comunque molto rilevanti agli occhi di chi giudica (il buon mentitore tende sempre a mantenere il contatto degli sguardi, proprio perché consapevole dell’importanza del gesto). Per un’analisi completa e aggiornata si rimanda a quanto scritto da a G. GULLOTTA, Innocenza e colpevolezza sul banco degli imputati, cit., p. 246 ss.
[9] C. PERELMAN, Il dominio retorico. Retorica e argomentazione, (trad. it. di) M. BOTTO – D. GIBELLI, Torino, 1981, p. 157 ss.
[10] A. TRAVERSI, La difesa penale. Tecniche argomentative e oratorie, Milano, 2009, p. 138 ss.
[11] Anche iniziare dall’argomento più forte non pare essere consigliabile perché è nota l’efficacia della conclusione delle argomentazioni sull’impressione generale (v. G. GULLOTTA, L. PUDDU, La persuasione forense, strategie e tattiche, Milano, 2004, p. 127 ss.). Con riguardo all’ordine nestoriano, già L. A. SENECA, Epistolarum moralium ad Lucilium, XIX, p. 114, rilevava come il problema connesso a tale tecnica consistesse nel pericolo di rompere il filo logico del pensiero. Più di recente è del medesimo parere M. STONE, La cross-examination: strategie e tecniche, cit., p. 119 ss. che ritiene necessario innanzitutto seguire una sequenza logica.
[12] C. PERELMAN, L. OLBRECHTS – TYTECA, Trattato sull’argomentazione. La nuova retorica. (trad. it. di) C. SCHICK, M. MAYER, Torino, 1989, p. 487 ss.
[13] G. GULLOTTA, L. PUDDU, La persuasione forense, cit., p. 103 ss.
[14] M. STONE, La cross-examination: strategie e tecniche, cit., p. 118 ss.
[15] È importante centellinare tali aspetti nella fase conclusiva del controesame, quando la frequenza delle domande dovrebbe farsi via via crescente per rendere il contesto sempre più serioso, secondo il classico schema “a imbuto” (dal generale al particolare), magari prediligendo anche quesiti “a raffica”. Non si può dimenticare, inoltre, che gli interroganti migliori siano spesso esperti conoscitori di quali siano le migliori sequenze di domande da porre nel corso del controesame: per imputati e testimoni sarà soprattutto importante mantenere la calma verso la fine della discussione, quando l’esaminatore inizierà ad accelerare la frequenza/il ritmo delle frasi e aumentare il tono della voce. (ma, di conseguenza, l’infiammarsi improvviso del tono potrebbe significare che l’esame dell’imputato stia volgendo a termine) (v. G. GULLOTTA, A. CURCI, Elementi di psicologia giuridica e di diritto psicologico, cit., p. 663 ss.).
[16] v. n. 14.
[17] G. GULLOTTA, Le 200 regole della cross-examination, cit., p. 134 ss.
[18] L. PONTI, All’avvocato si dice sempre tutto, Torino, 2019, p. 195 ss., dove si affrontano in chiave romanzata molti degli aspetti “psicologici” più rilevanti che frequentemente si verificano, secondo l’esperienza dell’autore, all’interno delle aule processuali.
[19] M. STONE, La cross-examination: strategie e tecniche, cit., p. 173 ss.
[20] G. GULLOTTA, Elementi di psicologia giuridica e di diritto psicologico, cit., p. 667.
[21] G. GULLOTTA, L. PUDDU, La persuasione forense, cit., p. 89 ss.
[22] Anche perché, alla stregua di quella che è una banale logica sillogistica, per elaborare un’equazione le premesse devono essere comuni: non posso derivare una conseguenza partendo da una mera ipotesi e utilizzarla come risultanza (in questo caso processuale).
[23] C. PERELMAN, Il dominio retorico, cit., p. 35 ss. Un esempio può essere il classico «Tutti siamo a conoscenza della crisi del nostro sistema economico di questi tempi…» oppure «Tutti sono a conoscenza della “crisi della sedia” in Friuli Venezia Giulia nei primi anni ’10…»
[24] C. PERELMAN, Il campo dell’argomentazione, Parma, 1979.
[25] L. DE CATALDO NEUBURGER, G. GULLOTTA, Ad captandum benevolentiam: la comunicazione persuasiva, in Trattato di psicologia giudiziaria, (a cura di) G. GULLOTTA, Milano, 1987, p. 794 ss.
[26] D. DICKINSON, Questioning, in Social skills in interpersonal communication, (a cura di) D. DICKINSON, O. HARGIE, L. SANDERS, Londra, 1985; J. T. DILLON, Questioning, in A handbook of communication skills, (a cura di) O. HARGIE, Sidney, 1986; G. GULLOTTA, L’uso strategico delle domande nel processo penale, in Un nuovo codice per una nuova giustizia, Aa. Vv., Padova, 1989, p. 169 ss.; W. LENHENERET, The process of question – answering, Erlasaun, 1978; E. F. LOTUS, J. GOODMAN, Evidence and purpouse of witness examination, in The psychology of evidence and trial procedure, (a cura di) M. KASSIN, L. WRITGHTSMAN, New York, 1985.
[27] Fare attenzione, dunque, a quale sia la parola o espressione sulla quale l’interrogante rimarchi l’intonazione (è diverso chiedere «Le è capitato spesso di desiderare che sua madre morisse?», «Le è capitato spesso di desiderare che sua madre morisse?», «Le è capitato spesso di desiderare che sua madre morisse» sono tre domande analoghe ma completamente differenti nel messaggio che si vuole trasmettere). Si veda sul tema in particolar modo W. LENHENERET, The process of question – answering, Erlasaun, 1978.
[28] Lo sfidare il testimone o l’imputato può rivelarsi sempre un’ottima idea, visto che questi rischiano di entrare in «antagonismo emotivo» con l’interrogatore. (G. GULLOTTA, Strumenti concettuali per agire nel nuovo processo penale, Milano, 1990, p. 191 ss.). Al contrario, l’utilizzo di domande “aperte” nel corso dell’esame diretto e del riesame («Come?» «In che senso?» «Perché?») può contribuire a creare un clima più disteso.
[29] È risultato che la domanda «Lei non ha ricordato?» sia più confusiva di quella «Lei ha dimenticato?», v. S. VOSNIADOU, Drawing inferences from semantically positive and negative implicative predicates, in Journal of psycholinguistic research, 1982, p. 77 ss.
[30] Cass. pen., sez. V, 7 ottobre 2008, n. 38221, Kofilova, CED Cass., 241312.
[31] M. FORNACIARI, A proposito di prova testimoniale “valutativa”, in Riv. dir. proc., 2013, p. 1006 ss. L’autore si addentra nella elencazione di quali siano le ulteriori differenze tra le prova testimoniale e la prova tecnica, discrasia che non si ha modo di trattare compiutamente all’interno di questo scritto.
[32] Cass. pen., sez V, 29 settembre 2004, n. 42634, CED Cass., 230330: «il divieto di esprimere apprezzamenti personali non si applica nel caso in cui il testimone sia persona particolarmente qualificata, in conseguenza della sua preparazione professionale, quando i fatti in ordine ai quali viene esaminato siano inerenti alla sua attività, giacché l’apprezzamento diventa inscindibile dal fatto, dal momento che quest’ultimo è stato necessariamente percepito attraverso il ‘filtro’ delle conoscenze tecniche e professionali del teste».
[33] Nonostante ai sensi dell’art. 506 comma 2 c.p.p. dovrebbe poterlo fare solo dopo l’esame diretto e il controesame.
[34] E sarebbe impossibile chiedere la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale nel giudizio d’appello ex art. 603 comma 2 c.p.p., proprio per la difficoltà nel provare la “decisività” della prova stessa. A dire, il vero, a peccare di dogmatica, essendo “nuova” la prova richiesta, il giudice d’appello dovrebbe sottostare ai limiti previsti dall’art. 495 comma 1 c.p.p. e quindi non disporre la rinnovazione solo qualora le prove si rivelassero manifestamente superflue o irrilevanti.
[35] G. CEVOLANI, V. CRUPI, Come ragionano i giudici: razionalità, euristiche e illusioni cognitive, in discrimen.it, 22.10.2018.