Tutto quello che avreste voluto sapere sul Coronavirus e non avete mai osato chiedere
Proponiamo qui di seguito alcuni commenti relativi ad argomenti giuridici specifici che hanno assunto rilevanza in ragione della pandemia da Coronavirus, ovvero frutto della normativa “emergenziale” di questo periodo.
I temi sono molti e qui ne affrontiamo alcuni, a nostro avviso particolarmente interessanti, considerando sempre un’ottica di interesse per le imprese e quindi aspetti correlati alla disciplina contrattualistica, a quella societaria, fallimentare ovvero alla sicurezza sul lavoro.
- LA NORMATIVA “EMERGENZIALE”
L’ “intoccabile” gerarchia delle fonti del diritto
Dopo l’adozione di diversi DPCM, volti a regolamentare la situazione di emergenza quale quella che abbiamo vissuto e stiamo vivendo a causa della pandemia da COVID-19, è intervenuto opportunamente il DL n. 19 del 25.03.2020, convertito dalla Legge n. 35/2020, a “mettere un po’ d’ordine”.
Per molti italiani fino a qualche tempo fa l’acronimo DPCM non significava nulla, ora non c’è probabilmente un italiano che non sappia che stiamo parlando del Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri.
Nella gerarchia normativa i DPCM occupano solo il terzo posto (dopo la Costituzione e le norme di primo livello quali le Leggi, i Decreti Legislativi e i Decreti Legge), trattandosi di fonti secondarie (atti amministrativi generali).
Il principio generale è che le norme di rango inferiore non possono modificare le norme di grado superiore, ma in questo momento storico ci accorgiamo come i DPCM abbiano assunto efficacia imperativa senza limiti.
E proprio alla luce di questo principio generale è intervenuto il DL n. 19 (convertito dalla Legge n. 35/2020) stabilendo che al fine di contenere e contrastare i rischi sanitari derivanti dalla diffusione del COVID-19, su parti o tutto il territorio nazionale, si sarebbero potute adottare, secondo quanto previsto dallo stesso DL (che ha posto norme di rango gerarchicamente superiore a quelle dei DPCM), una o più misure di contenimento tra quelle specificamente indicate nel medesimo DL n. 19. E’ stato altresì espressamente previsto che le violazioni alle misure con ciò adottate fossero punite con una sanzione amministrativa del pagamento di una somma e non ai sensi dell’art. 650 c.p. (salvo, ovviamente, che il fatto non costituisse reato) e ciò con effetto retroattivo e quindi anche per le violazioni ai precedenti DPCM già contestate, in piena coerenza con quanto prevede l’art. 2 del c.p.
Opportunamente quindi i DPCM hanno consentito l’attuazione di quanto stabilito dal DL, con espresso riconoscimento di efficacia dei DPCM emanati.
Con questo provvedimento, rispettoso del sistema gerarchico delle fonti del diritto del nostro ordinamento, è stato messo quindi ordine alla normazione che si è avuta in materia.
Il passaggio alla sanzione amministrativa in luogo di quella penale (art. 650 c.p.) per i casi meno gravi probabilmente è derivata dalla consapevolezza del fatto che altrimenti le Procure della Repubblica sarebbero state letteralmente sommerse da notizie di reato che le avrebbero occupate oltremodo.
- CORONAVIRUS E LA GESTIONE DEI CONTRATTI
La forza maggiore
Mai come in questo periodo storico si sente parlare di forza maggiore, termine che gli avvocati hanno studiato all’Università e forse affrontato in qualche esame di stato o concorso ma che raramente è stato visto capitare nella prassi.
La “forza maggiore” è l’eccezione alla regola in base alla quale i contratti devono essere adempiuti da entrambe le parti e consente eccezionalmente ad una parte di liberarsi dalla prestazione e dalla conseguente responsabilità (anche risarcitoria).
La forza maggiore è qualsiasi causa non imputabile al debitore che rende impossibile l’adempimento (art. 1256, 1° comma , codice civile), ma analoghi istituti si conoscono anche nel diritto cinese (art. 117 legge sui contratti della Repubblica popolare Cinese) e nel diritto internazionale (art. 79 Convenzione di Vienna), senza citare tante altre legislazioni nazionali straniere che lo contemplano.
Sono di storica introduzione nei contratti internazionali, anche se di rara applicazione (fino a oggi), le clausole c.d. “hardship” che estendono ulteriormente i limiti della “forza maggiore”.
Le conseguenze di una causa di forza maggiore possono essere:
- La sospensione
- La rinegoziazione o
- La risoluzione del contratto
La diffusione del COVID-19 trascina con sé anche questo fenomeno e non abbiamo dovuto attendere molto dall’inizio della pandemia per leggerne le prime applicazioni (o tentativi di applicazioni) pratiche.
La c.d. “clausola coronavirus” e le locazioni commerciali
Con l’introduzione dell’art. 91 del Decreto Cura Italia (D.L. 18/2020, convertito dalla Legge n. 208/2020) si è parlato e si parla di “Clausola Coronavirus”, quasi fosse stata introdotta una norma “libera tutti”.
Per vero, come osservato, la forza maggiore trovava già ingresso nella disciplina contrattuale tramite una serie di norme:
- l’art. 1218 c.c. già prevede che il debitore non sia responsabile dell’inadempimento se questo è determinato da causa a lui non imputabile;
- l’art. 1256 c.c. già prevede che l’obbligazione contrattuale si estingua quando la prestazione divenga impossibile per causa non imputabile al debitore (se, però, è temporanea il debitore non è responsabile del ritardo);
- l’art. 1467 c.c. già prevede che in caso di avvenimenti straordinari e imprevedibili, se la prestazione di una delle due parti diventa eccessivamente onerosa, tale parte può domandare la risoluzione del contratto.
In questo contesto normativo preesistente si colloca l’art. 91 del Decreto Cura Italia (D.L. 18/2020 convertito poi dalla Legge n. 27/2020) secondo il quale: “Il rispetto delle misure di contenimento di cui presente decreto è sempre valutata ai fini dell’esclusione, ai sensi e per gli effetti degli articoli 1218 e 1223 c.c., della responsabilità del debitore, anche relativamente all’applicazione di eventuali decadenze o penali connesse a ritardati o omessi adempimenti”.
In verità, l’art. 91 del Decreto Cura Italia ha solamente affermato che il rispetto delle misure di contenimento integra, ai fini del già noto art. 1218 c.c., la giusta causa per non imputare al debitore l’inadempimento della prestazione.
Il tema della forza maggiore così delineato ha assunto importanza notevole soprattutto in tema di locazioni commerciali, ma come si collega (quantomeno direttamente) al mancato pagamento del canone?
Innanzitutto le misura di contenimento adottate hanno impedito e/o fortemente limitato l’apertura dei punti vendita, quindi semmai di fatto impedito l’assolvimento dell’obbligazione del locatore (ammesso che, in questo caso, possa ritenersi nella sua sfera di controllo) di garantire al conduttore il godimento dell’immobile, ma certamente non, di per sé e automaticamente, il pagamento di un’obbligazione di denaro (il canone), nonostante la chiusura del negozio.
Ovviamente e d’altra parte, non si può pensare che il conduttore sia tenuto a pagare per sempre un canone intero, quando non ha potuto aprire al pubblico i locali per esercitare la sua attività di impresa, ma questo ha richiesto e richiede una valutazione caso per caso secondo i principi generali già esistenti e, quindi:
- se, ai sensi dell’art. 1218 c.c., l’impossibilità di aprire i locali al pubblico abbia determinato anche un’impossibilità di pagarne il canone;
- se, ai sensi dell’art. 1256 c.c., l’impossibilità di aprire i locali al pubblico abbia determinato una impossibilità definitiva di pagare il canone o, se temporanea, ne giustificasse (o ne giustifichi) la sospensione;
- se, ai sensi dell’art. 1467 c.c., l’impossibilità di aprire i locali abbia determinato una eccessiva onerosità del sinallagma contrattuale tale da giustificare la risoluzione del contratto.
A quest’ultimo proposito, si osserva peraltro in punto risolubilità del contratto (ex art. 1467 c.c.), che dovremmo soppesare la mancata disponibilità dei locali per pochi mesi, rispetto a un contratto che (di media) dura almeno sei anni, quindi uno squilibrio, nel sinallagma contrattuale, non sempre così rilevante.
Nell’ottica della rinegoziazione si è espressa anche la Corte di Cassazione, nell’ottica di riduzione ad equità della disciplina contrattuale, nella Rel. n. 56 del luglio 2020.
La rinegoziazione, a fronte di sopravvenienze che alterano il rapporto di scambio, diventa, pertanto, un passaggio obbligato, che serve a conservare il piano di costi e ricavi originariamente pattuito, con la conseguenza che chi si sottrae all’obbligo di ripristinarlo commette una grave violazione del regolamento contrattuale.
Caso per caso, comunque, non per principi assoluti va affrontata questa crisi che, oltre che sanitaria, sta rapidamente diventando economica e sociale, consci che il Decreto Cura Italia non ha prodotto istituti o clausole nuove.
- LE SOCIETA’
Il decreto Liquidità e le disposizioni in materia di società di capitali
Il Decreto c.d. “Liquidità” (D.L. 8.04.2020 n. 23 convertito dalla Legge n. 40/2020) ha introdotto alcune norme che disciplinano in via temporanea (limitandone inizialmente l’efficacia temporale al solo anno 2020, salvo proroghe) alcune deroghe importanti alla disciplina della società di capitali, nello specifico:
- l’art. 6 del Decreto prevedeva inizialmente che dal 9 aprile 2020 al 31 dicembre 2020 non trovassero applicazione le norme che impongono la riduzione del capitale per perdite nelle S.p.A. (artt. 2446 commi secondo e terzo, e 2447 c.c.) e nelle S.r.l. (artt. 2482bis commi quarto, quinto e sesto e 2482ter c.c.) e, nel contempo, le norme sullo scioglimento ex lege per perdite (artt. 2484, comma primo n. 4, e 2545-duodecies c.c.); è intervenuta successivamente la Legge di Bilancio n. 178/2020 che ha stabilito che “1. Per le perdite emerse nell’esercizio in corso alla data del 31dicembre 2020 non si applicano gli articoli 2446, secondo e terzo comma, 2447, 2482-bis, quarto, quinto e sesto comma, e 2482-ter del codice civile e non opera la causa di scioglimento della società per riduzione o perdita del capitale sociale di cui agli articoli 2484, primo comma, numero 4), e 2545-duodecies del codice civile. 2. Il termine entro il quale la perdita deve risultare diminuita a meno di un terzo stabilito dagli articoli 2446, secondo comma, e 2482-bis, quarto comma, del codice civile, è posticipato al quinto esercizio successivo; l’assemblea che approva il bilancio di tale esercizio deve ridurre il capitale in proporzione delle perdite accertate. 3. Nelle ipotesi previste dagli articoli 2447 o 2482-ter del codice civile l’assemblea convocata senza indugio dagli amministratori, in alternativa all’immediata riduzione del capitale e al contemporaneo aumento del medesimo a una cifra non inferiore al minimo legale, può deliberare di rinviare tali decisioni alla chiusura dell’esercizio di cui al comma 2. L’assemblea che approva il bilancio di tale esercizio deve procedere alle deliberazioni di cui agli articoli 2447 o 2482-ter del codice civile. Fino alla data di tale assemblea non opera la causa di scioglimento della società per riduzione o perdita del capitale sociale di cui agli articoli 2484, primo comma, numero 4), e 2545-duodecies del codice civile. 4. Le perdite di cui ai commi da 1 a 3 devono essere distintamente indicate nella nota integrativa con specificazione, in appositi prospetti, della loro origine nonché delle movimentazioni intervenute nell’esercizio.”;
- l’art. 7 del Decreto ha previsto che la valutazione delle prospettive di continuità, nella redazione del bilancio di esercizio, può essere operata se risulta sussistente nell’ultimo bilancio chiuso in data anteriore al 23 febbraio 2020 (ancorché non ancora approvato);
- l’art. 8 del Decreto prevede che ai finanziamenti alle società effettuati nel periodo dal 9 aprile 2020 al 31 dicembre 2020 non si applichino le regole sulla postergazione rispetto agli altri debiti sociali, previste dagli artt. 2467 e 2497quinquies c.c.
In questo contesto, è chiaro che l’intento del legislatore è quello di alleggerire le società di capitali da una serie di regole che imporrebbero una maggiore attenzione sulla tutela del capitale sociale, per far fronte all’emergenza contingente.
In questa ottica, si registrano anche la disposizione che ha dichiarato improcedibili le richieste di fallimento fino al 30.06.2020 (art. 10 del Decreto Liquidità di cui parleremo in seguito), fatta salve alcune eccezioni, e quella che ha rinviato a settembre 2021 l’entrata in vigore del Codice della Crisi (art. 5 del Decreto Liquidità convertito dalla Legge n. 40/2020).
In sostanza, queste previsioni consentono, in presenza di perdite che incidano sul capitale sociale, di posticipare decisioni assembleari di ricapitalizzazione al termine dell’esercizio 2025, pure nei casi più gravi in cui siano stati superati i limiti di legge per la sopravvivenza della società (dal momento che non si applicano nemmeno le norme sullo scioglimento ex lege per perdite), purché le perdite in questione siano emerse per la prima volta nel corso dell’esercizio che si è chiuso al 31.12.2020.
Per vero le ricadute di una tale previsione sono concretamente difficili da prevedere, anche quanto a rapporti con l’insolvenza (concetto di per sé diverso dalla perdita di capitale rilevante e dalla perdita di continuità) o la crisi di impresa rilevante ai sensi del Codice della Crisi: viene meno la responsabilità per l’amministratore che non ha richiesto il fallimento della società ovvero l’accesso ad altre procedure concorsuali?
Nel contempo, e ciò, invece, solamente fino al 31.12.2020, i finanziamenti che i soci vogliono effettuare vengono trattati come tutti gli altri crediti e, quindi, in teoria, ripetibili in ogni momento.
In sostanza, quindi, in presenza di crisi di liquidità, è stata data ai soci la possibilità di farvi fronte non con conferimenti di capitale ma con finanziamenti soci, quindi mantenendo il diritto di averli restituiti anche prima dello scioglimento della società e non solo dopo il pagamento di tutti gli altri debiti.
Con questo alleggerimento, di conseguenza, sono state quanto meno limitate le rispettive responsabilità degli amministratori, ma ci permettiamo di offrire una riflessione perché non tutto in realtà è roseo come sembra e questo non deve far pensare che sia consentito agire con leggerezza, come già si è osservato.
Se, infatti, in caso di fallimento di una società dopo il 30 giugno 2020 è ben vero che agli amministratori non potrà essere imputata la responsabilità per non aver provveduto immediatamente a ripianare le perdite (non trovando applicazione, nei limiti temporali citati, le norme temporaneamente derogate dall’art. 6) tuttavia ciò non toglie che se tale esigenza fosse sorta prima dell’esercizio 2020, l’amministratore potrebbe essere comunque chiamato a rispondere per non averlo fatto prima (quando la deroga non era in vigore).
Se, poi, si fosse deciso entro il 31.12.2020 di sostenere una società, prima del suo fallimento (ovviamente successivo al 30.06.2020), con il sistema del finanziamento soci, per poi ripeterli prima del fallimento, si incorrerebbe comunque nella responsabilità penale per pagamento preferenziale (art. 216 Legge Fallimentare) perché se è vero che il finanziamento soci non è postergato, ciò non implica che possa essere rimborsato in violazione della par condicio.
Occorre, quindi, fare attenzione a queste norme perché tanto spazio lasciano all’iniziativa degli amministratori, tante insidie altrettanto nascondono e solo nei prossimi mesi potremo verificarne le conseguenze.
Le Assemblee Societarie
Tra i tanti problemi che il Covid-19 ha portato, una menzione è richiesta anche per l’organizzazione delle assemblee societarie, come sopra accennato.
La quasi totalità degli statuti societari contempla da tempo la possibilità di adunanze assembleari e consiliari attraverso mezzi di telecomunicazione, ma solitamente si prevede una sede fisica dove (di regola) devono essere effettivamente e contestualmente presenti il presidente e il segretario verbalizzante.
L’esigenza primaria di evitare i contatti, tuttavia, ha posto il tema delle riunioni interamente telematiche, senza la presenza contemporanea di nessun partecipante nel medesimo luogo.
Il Consiglio Notarile di Milano, notoriamente attivo e seguito con il proprio massimario, si è subito attivato con la massima n. 187 che, rifacendosi al DPCM 8.3.2020 ha ritenuto ammissibili le assemblee anche senza la presenza contemporanea del presidente e del segretario e, peraltro, la possibilità di tenere le assemblee per telecomunicazione anche se non espressamente previsto dallo statuto.
Il Decreto Cura Italia (D.L. 18/2020 convertito dalla Legge n. 208/2020) è intervenuto anche su questo e all’art. 106 espressamente ha legittimato le adunanze tenute esclusivamente in via telematica, senza la necessaria presenza nello stesso luogo del presidente e del segretario o del notaio. Tale modalità, inizialmente prevista solo fino al 31.07.2020, è stata successivamente prorogata con il D.L. Milleproroghe (D.L. 183/2020 non ancora oggetto di conversione) che prevede tale possibilità fino, al massimo, al 31.03.2021.
Coronavirus e nuovi assetti organizzativi
Il nuovo Codice della Crisi d’Impresa, all’art. 375, comma 2 ha introdotto la sostanziale riforma dell’art. 2086 c.c. – che cambia rubrica da “Direzione e gerarchia dell’impresa” a “Gestione dell’impresa” – aggiungendo un secondo comma alla predetta disposizione che recita: «L’imprenditore, che operi in forma societaria o collettiva, ha il dovere di istituire un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato alla natura e alle dimensioni dell’impresa, anche in funzione della rilevazione tempestiva della crisi dell’impresa e della perdita della continuità aziendale, nonché di attivarsi senza indugio per l’adozione e l’attuazione di uno degli strumenti previsti dall’ordinamento per il superamento della crisi e il recupero della continuità aziendale».
L’imprenditore, conseguentemente, ha l’obbligo di adottare degli assetti organizzativi, amministrativi e contabili finalizzati a monitorare, ed eventualmente, rilevare situazioni patologiche che potrebbero sfociare anche nella crisi dell’impresa.
Nel rispetto di questa normativa, ci si è chiesti se il Coronavirus imponga l’adozione di particolari accorgimenti nell’organizzazione degli assetti.
Per esempio, nel rispetto dei decreti legge che si sono susseguiti con frequenza settimanale, quando non giornaliera, ci si interroga se l’invito al telelavoro implichi anche l’assegnazione ai dipendenti degli strumenti necessari per la connessione da remoto, ai sensi dell’art. 2087 c.c.
E su questo tema, ad esempio, si è anche dibattuto sulla spettanza dei c.d. “buoni pasto”, con orientamenti contrastanti, salvo essersi pronunciato sul punto il Tribunale di Venezia con decreto del 08.07.2020 n. 3463/2020 statuendo che i buoni pasto, non costituendo elementi retributivi, non sono dovuti nei confronti del personale che espleta attività lavorativa in regime di smart working.
Anche la normativa sulla privacy, in un periodo dove la conoscenza della sintomatologia dei dipendenti e collaboratori rappresenta ormai ragione di tutela pubblica, va attentamente considerata.
La sicurezza nei luoghi di lavoro al tempo del coronavirus
L’imprenditore è tenuto ad adottare, nell’esercizio dell’impresa, le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro a fronte della pandemia di Coronavirus.
Tale obbligo è previsto dall’art. 2087 cc, da leggersi in combinato disposto con l’art. 25-septies, D.Lgs. 231/2001, che impongono al datore di lavoro di garantire la salute dei suoi dipendenti, tutelandoli anche da un eventuale rischio biologico, rischio oggi quanto mai reale.
La mancata adozione delle misure di tutela della salute dei dipendenti potrebbe esporre l’azienda al rischio di incorrere nella responsabilità amministrativa da reato di cui al D.lgs. n. 231/2001 e alle relative sanzioni pecuniarie e interdittive, con l’aggravio di una situazione economica già compromessa dall’epidemia.
Per le imprese deve quindi essere obiettivo primario quello di coniugare la prosecuzione delle attività d’impresa con la garanzia di condizioni di salubrità e sicurezza degli ambienti di lavoro e delle modalità lavorative, adottando tutte le opportune misure per contrastare la diffusione del virus nei luoghi di lavoro e attenendosi ai principi di massima cautela e prudenza, vigilando sul rispetto delle best practice operanti in materia.
In particolare, nel “Protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro”, sottoscritto il 14 marzo 2020, integrato in data 24 aprile 2020 e confermato con D.P.C.M. 3 dicembre 2020, alle aziende operanti sul territorio nazionale sono state fornite delle linee guida, alle quali i datori di lavoro devono attenersi, finalizzate a incrementare, negli ambienti di lavoro non sanitari, l’efficacia delle misure precauzionali di contenimento, adottate per contrastare l’epidemia da COVID-19.
Al fine di scongiurare il rischio di incorrere nella responsabilità amministrativa da reato di cui al D.lgs. n. 231/2001, le imprese, non solo sono tenute a uniformarsi attivamente a tali linee guida, ma anche ad adottare tutte le misure idonee a prevenire rischi per la salute dei lavoratori.
In tal senso è stato ed è determinante dotarsi di procedure interne volte a garantire la più idonea osservanza delle cautele poste a tutela della salute dei dipendenti revisionando quanto prima le misure di prevenzione.
Un tanto anche ovviamente sotto il profilo dell’aggiornamento del DVR, se ritenuto necessario, e/o del MOG 231 aziendale.
- LA DISCIPLINA FALLIMENTARE
Stop ai fallimenti richiesti durante il periodo di lockdown
Con il DL n. 23 dell’8 aprile 2020 (convertito dalla Legge n. 40/2020) il Governo ha disposto uno “stop” alle dichiarazioni di fallimento delle imprese commerciali e dello stato di insolvenza delle grandi imprese con riferimento ai ricorsi depositati ai sensi della Legge Fallimentare e del d.lgs. n. 270/1999 (c.d. Legge Prodi bis relativa alla disciplina delle procedure di insolvenza delle grandi imprese in crisi) nel periodo dal 9 marzo al 30 giugno 2020.
In particolare l’art. 10 del medesimo DL stabilisce, al primo comma, che “Tutti i ricorsi ai sensi degli articoli 15 e 195 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 e 3 del decreto legislativo 8 luglio 1999, n. 270 depositati nel periodo tra il 9 marzo 2020 ed il 30 giugno 2020 sono improcedibili”.
Fanno eccezione e quindi la disposizione che precede non ha trovato applicazione, in ragione di quanto previsto dallo stesso art. 10 come convertito in legge: a) al ricorso presentato dall’imprenditore in proprio, quando l’insolvenza non e’ conseguenza dell’epidemia di COVID-19; b) all’istanza di fallimento da chiunque formulata ai sensi degli articoli 162, secondo comma, 173, secondo e terzo comma, e 180, settimo comma, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267; c) alla richiesta presentata dal pubblico ministero quando nella medesima e’ fatta domanda di emissione dei provvedimenti di cui all’articolo 15, ottavo comma, LF ovverosia di provvedimenti cautelari o conservativi a tutela del patrimonio dell’impresa, o quando la richiesta e’ presentata ai sensi dell’articolo 7, numero 1), LF (quando l’insolvenza risulti nell’ambito di un procedimento penale, dalla fuga, dalla irreperibilità o dalla latitanza dell’imprenditore, ovvero dalla chiusura dei locali dell’impresa, dal trafugamento, dalla sottrazione o diminuzione fraudolenta dell’attivo da parte dell’imprenditore).
Si può constatare che il periodo preso in considerazione ai fini dell’improcedibilità dei ricorsi per la declaratoria di fallimento dell’imprenditore commerciale o dello stato di insolvenza di grandi imprese è stato superiore rispetto a quello stabilito dall’art. 36 del medesimo DL in relazione alla sospensione di tutti i termini processuali (sino all’11 maggio 2020).
Interessante altresì la precisazione di cui all’ultimo comma dell’art. 10 del DL n. 23/2020 (convertito dalla Legge n. 40/2020), ove si è precisato che, nelle ipotesi in cui alla dichiarazione di improcedibilità dei ricorsi ai sensi del primo comma avesse fatto poi seguito entro il 30 settembre 2020 la dichiarazione di fallimento, il periodo dal 9 marzo al 30 giugno 2020 non si sarebbe computato nei termini di cui all’art. 10 (relativo alla dichiarazione di fallimento dell’imprenditore cancellato da Registro Imprese), 64, 65, 67, commi 1 e 2 LF (che disciplinano la revocatoria degli atti a titolo gratuito della revocatoria ordinaria e fallimentare) 69 bis (che disciplina la decadenza dall’azione con riferimento alle azioni revocatorie) della Legge Fallimentare.
Si osserva che la disposizione dell’art. 10 del DL n. 23/2020 non ha richiamato espressamente la disciplina di cui la DL n. 347/2003, convertito con modifiche in L. n. 39/2004 (c.d. “Legge Marzano”) relativo alla procedura di amministrazione straordinaria delle “grandissime” imprese (o gruppi) in crisi (con dipendenti non inferiori a 500 e debiti non inferiori a 300 milioni di euro), non richiamando l’art. 2 della Legge Marzano.
Peraltro, considerata la ratio della norma introdotta, l’orientamento da noi espresso è stato nel senso di non vedere ragioni per non considerare improcedibili anche i ricorsi per la dichiarazione di insolvenza presentati nello stesso periodo (dal 9 aprile al 30 giugno 2020) ai sensi dell’art. 2 del DL n. 347/2003, contestualmente all’istanza al Ministero delle attività produttive per l’ammissione alla procedura di amministrazione straordinaria tramite la ristrutturazione economica e finanziaria di cui all’art. 27, comma 2, lett. B) del d.lgs. n. 270/1999. Interpretazione che ci sembra avvalorata, (si rinvengono per vero anche interpretazioni diverse) anche dai richiami alla disciplina della Prodi bis operati dall’art. 4 del DL n. 347/2003 relativo all’accertamento dello stato di insolvenza.
Il tendenziale favor per le procedure concorsuali minori
All’improcedibilità delle istanze di fallimento proposte dal 9 marzo al 30 giugno 2020 (salve le eccezioni sopra elencate), il DL n. 23 dell’8 aprile (convertito dalla Legge n. 40/2020), ha aggiunto all’art. 9 una serie di disposizioni volte, a nostro avviso, a riconoscere rilevanza di forza maggiore alla pandemia in atto rispetto alle procedure di concordato preventivo e per l’omologa degli accordi di ristrutturazione dei debiti.
Questa inclinazione emerge con una certa evidenza dalla disposizione del primo comma della norma che proroga ex lege di sei mesi i termini per l’adempimento dei concordati preventivi e degli accordi di ristrutturazione dei debiti già omologati con termini di adempimento successivi al 23 febbraio 2020 (salva la differenza in materia di disciplina delle iniziative per la relativa risoluzione, dal momento che l’art. 186 LF non riguarda gli accordi ex art. 182 bis LF).
Come si può notare è stato con ciò “coperto” un periodo ben più lungo rispetto a quello dei rinvii ex lege dei procedimenti in corso e della sospensione dei termini processuali (che l’art. 36 del medesimo DL n. 23 ha esteso fino all’11 maggio 2020).
Per tale ragione si parla di un “diritto transitorio concordatario”.
L’art. 9 del DL n. 23/2020 (convertito dalla Legge n. 40/2020), ha altresì previsto per il debitore, con riferimento ai procedimenti in corso al 23 febbraio 2020 per l’omologazione del concordato preventivo e degli accordi di ristrutturazione dei debiti, la possibilità di presentare un’istanza per la concessione di un termine non superiore a novanta giorni per il deposito di un nuovo piano e di una nuova proposta di concordato preventivo (con l’eccezione dell’ipotesi in cui si fosse già tenuta l’adunanza dei creditori e non siano state raggiunte le maggioranze di cui all’art. 177 LF) o di un nuovo accordo di ristrutturazione dei debiti.
Al debitore è stata data anche la possibilità, dal comma 3 dell’art. 9 del DL n. 23/2020, di chiedere solamente un differimento dei termini per l’adempimento del concordato preventivo o dell’accordo di ristrutturazione dei debiti e ciò sino all’udienza fissata per l’omologa, depositando una memoria con indicazione dei nuovi termini (sino a sei mesi) e documentazione a conforto della necessità della modifica (si deve ritenere quale conseguenza della pandemia). Anche esaminando la relazione illustrativa, l’iniziativa del debitore è stata definita come “unilaterale” e ciò, con particolare riferimento agli accordi di ristrutturazione dei debiti, ci è sembrato escludere la necessità di un consenso dei creditori aderenti all’accordo alla modifica dei soli termini di adempimento.
Il Tribunale di Udine con provvedimento del 28 maggio 2020, pronunciato in un procedimento per l’omologa di accordo di ristrutturazione dei debiti ex art. 182 bis LF avviato da una s.r.l. con il patrocinio di Ponti & Partners, ha confermato l’interpretazione proposta dai difensori secondo la quale la possibilità offerta al debitore dal comma 3 dell’art. 9 del DL n. 23/2020 di chiedere solamente un differimento dei termini per l’adempimento del concordato preventivo o dell’accordo di ristrutturazione dei debiti deve ritenersi “unilaterale”.
Con particolare riferimento agli accordi di ristrutturazione dei debiti si deve quindi escludere la necessità di un consenso dei creditori aderenti all’accordo non coinvolti, quindi, nella decisione del Tribunale sulla necessità della modifica dei termini come indicata dal debitore.
Il Tribunale, prevede ancora la norma, acquisito il parere del Commissario Giudiziale, quanto a procedure di concordato preventivo, “riscontrata la sussistenza dei presupposti di cui all’art. 180 o 182 bis del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, procede all’omologa, dando espressamente atto delle nuove scadenze” e da un tanto è emerso l’interrogativo sull’ampiezza dei poteri del Tribunale e se si sia in presenza di una scontata remissività o meno.
Il comma 4 della disposizione riguarda i concordati con riserva, essendo previsto che il debitore che abbia ottenuto la concessione del termine ai sensi dell’art. 161, comma 6, LF (per il deposito del piano e della domanda completa di tutta la documentazione di cui all’art. 161 LF), già prorogato, può prima della relativa scadenza presentare istanza per la concessione di un ulteriore termine sino a 90 giorni (e ciò anche in pendenza di istanze di fallimento), indicando le ragioni poste a fondamento della richiesta di proroga con specifico riferimento ai fatti sopravvenuti per effetto dell’emergenza Covid-19. Il tribunale, acquisito il parere del Commissario giudiziale se nominato, concede la proroga quando ritiene che sussistano concreti e giustificati motivi (sempre riconducibili alla pandemia in corso).
In merito preme osservare che si sono avute interpretazioni rigorose da parte dei Tribunali che hanno dato applicazione a tale disposizione, ritenendo che tale proroga non potesse essere concessa alla scadenza del primo termine concesso dal Tribunale, ma solo in ragione e successivamente ad una precedente proroga. Così nello specifico il Tribunale di Roma si è pronunciato nell’ambito di due procedure di pre-concordato con il patrocinio di Ponti & Partners (provvedimenti del 3 giugno e del 29 luglio 2020).
Istanza analoga può essere presentata dal debitore che abbia ottenuto la concessione del termine di cui all’art. 182 bis, comma 7, LF. Il Tribunale, conclude la disposizione, provvede in camera di consiglio omessi gli adempimenti previsti dall’art. 182 bis, comma 7, primo periodo, LF e concede la proroga quando ritiene che l’istanza si basi su concreti e giustificati motivi (correlati al Covid-19) e che continuano a sussistere i presupposti per pervenire ad un accordo di ristrutturazione ex art. 182 bis LF con le maggioranze previste dalla legge.
In sede di conversione è stato inserito un comma 5 bis all’art. 9 sopra citato, a norma del quale il debitore che, entro la data del 31 dicembre 2021, ha ottenuto la concessione dei termini di cui all’articolo 161, sesto comma, o all’articolo 182-bis, settimo comma, LF possa entro i termini così concessi, depositare un atto di rinuncia alla procedura, dichiarando di avere predisposto un piano di risanamento ai sensi dell’articolo 67, terzo comma, lettera d), LF, pubblicato nel registro delle imprese, e depositando la documentazione relativa alla pubblicazione medesima.
Luca Ponti, Francesca Spadetto, Paolo Panella, Luca De Pauli