Con l’introduzione dell’art. 91 del Decreto Cura Italia (D.L. 18/2020) si parla già di “Clausola Coronavirus”, quasi fosse stata introdotta una norma “libera tutti” (come giustamente critica il prof. Giampaolino sul Sole24Ore del 25.03.2020).

Andiamo con ordine, la forza maggiore trovava già ingresso nella disciplina contrattuale tramite una serie di norme:

  • l’art. 1218 c.c. già prevede che il debitore non sia responsabile dell’inadempimento se questo è determinato da causa a lui non imputabile;
  • l’art. 1256 c.c. già prevede che l’obbligazione contrattuale si estingua quando la prestazione divenga impossibile per causa non imputabile al debitore (se, però, è temporanea il debitore non è responsabile del ritardo);
  • l’art. 1467 c.c. già prevede che in caso di avvenimenti straordinari e imprevedibili, se la prestazione di una delle due parti diventa eccessivamente onerosa, tale parte può domandare la risoluzione del contratto.

In questo contesto normativo preesistente si colloca l’art. 91 del Decreto Cura Italia (D.L. 18/2020) secondo il quale: “Il rispetto delle misure di contenimento di cui presente  decreto  è  sempre  valutata  ai  fini dell’esclusione, ai sensi e per gli effetti  degli  articoli  1218  e 1223 c.c., della responsabilità del  debitore,  anche  relativamente all’applicazione di eventuali decadenze o penali connesse a ritardati o omessi adempimenti”.

In questo contesto, si leggono pareri legali pubblicati on-line piuttosto che lettere prestampate realizzate da associazioni di categoria che già invocano un presunto diritto alla sospensione dei canoni di locazione (grazie alla c.d. “clausola Coronavirus”), se non addirittura l’esenzione (quantomeno per il periodo di durata della misura di contenimento), con progressiva riduzione anche per il periodo post contenimento.

In verità, però, l’art. 91 del Decreto Cura Italia ha solamente affermato che il rispetto delle misure di contenimento integra, ai fini del già noto art. 1218 c.c., la giusta causa per non imputare al debitore l’inadempimento della prestazione ma questo come si collega (quantomeno direttamente) al mancato pagamento del canone?

La misura di contenimento, infatti, impedisce l’apertura del punto vendita, quindi semmai l’obbligazione del locatore (ammesso che, in questo caso, possa ritenersi nella sua sfera di controllo) di garantire al conduttore il godimento dell’immobile, ma certamente non impedisce il pagamento di un’obbligazione di denaro (il canone), ancorché il negozio sia chiuso.

Non esiste, quindi, una diretta correlazione tra la misura di contenimento e la prestazione del pagamento del canone, pertanto l’art. 91 del Decreto Cura Italia non è immediatamente applicabile al conduttore, quando viene a scadere il termine per pagare il canone di locazione.

Ovviamente e d’altra parte, non si può pensare che il conduttore sia tenuto a pagare per sempre un canone intero, quando non può aprire al pubblico i locali per esercitare la sua attività di impresa, ma questo va valutato caso per caso secondo i principi generali già esistenti e, quindi:

  • Va valutato se, ai sensi dell’art. 1218 c.c., l’impossibilità di aprire i locali al pubblico determini anche un’impossibilità di pagarne il canone;
  • Va valutato se, ai sensi dell’art. 1256 c.c., l’impossibilità di aprire i locali al pubblico determini una impossibilità definitiva di pagare il canone o, se temporanea, ne giustifichi la sospensione;
  • Va valutato se, ai sensi dell’art. 1467 c.c., l’impossibilità di aprire i locali determini una eccessiva onerosità del sinallagma contrattuale tale da giustificare la risoluzione del contratto.

Salvo verifica caso per caso, tuttavia, dando per ipotesi (e auspicio) che il periodo di contenimento non superi due mesi, è incerto in quanti casi si potrà effettivamente dimostrare che l’impossibilità di aprire i locali abbia determinato altresì l’impossibilità di pagare il canone di locazione.

Se così fosse, questo dovrebbe applicarsi non solo ai debiti verso il locatore ma anche ai debiti verso tutti gli altri fornitori (non consideriamo i dipendenti perché hanno una posizione privilegiata, anche in termini tecnici, ma tra fornitori di pari grado perché si dovrebbe distinguere?).

Se, poi, volessimo valutare l’eventuale risolubilità del contratto (ex art. 1467 c.c.), dovremmo soppesare la mancata disponibilità dei locali per due mesi, rispetto a un contratto che (di media) dura almeno sei anni, quindi uno squilibrio, nel sinallagma contrattuale, di solo il 2,7% del complessivo (2 mesi su 72).

A parti invertite, poi, non si deve sottovalutare il fatto che il locatore, se non percepisse il canone per i mesi di durata delle misure di contenimento, non avrebbe comunque e nemmeno la disponibilità dei locali che, invece, resterebbero al conduttore (come dire: “oltre al danno, la beffa”).

Vero è che la locazione commerciale (soprattutto se si tratta di locali destinati al contatto con il pubblico) perde di utilità se il locale deve rimanere chiuso, ma è anche vero che il locale rimane comunque nella disponibilità del conduttore che, per quel periodo, ne continua a far uso (quantomeno come magazzino delle sue merci e attrezzature) e mentendolo locato ne preserva l’avviamento commerciale.

In definitiva, non si può dare per scontato che il Coronavirus sia una scusante assoluta per non pagare il canone, ma certamente sarà opportuno che le parti contrattuali si vengano incontro per commisurare i rispettivi interessi al fine di riequilibrare in buona fede il sinallagma contrattuale, ma senza pregiudicare (esclusivamente) la proprietà immobiliare.

Diversamente opinando e per assurdo, anche il conduttore che riuscisse comunque a mantenere il suo fatturato (perché, in ipotesi, riconvertito in e-commerce per quel periodo) potrebbe approfittarne per generare liquidità inaspettata, tagliando il costo della locazione.

Questo, ovviamente, andrà controbilanciato con il fatto che l’eventuale riconversione online del commercio potrebbe dipendere da costi e investimenti che, diversamente, il conduttore non avrebbe fatto e di cui, pertanto, non potrà avvantaggiarsi il locatore per sostenere l’insussistenza del pregiudizio sul sinallagma contrattuale.

Caso per caso, quindi, non per principi assoluti va affrontata questa crisi che, oltre che sanitaria, sta rapidamente diventando economica e sociale, consci che il Decreto Cura Italia non ha prodotto istituti o clausole nuove.

Affronteremo nelle prossime newsletter ulteriori risvolti dell’emergenza Covid-19, sotto il profilo del factum principis, in relazione anche ad altri rapporti contrattuali.