Proponiamo qui di seguito alcuni commenti relativi ad argomenti giuridici specifici che hanno assunto rilevanza in ragione della pandemia da Coronavirus, ovvero frutto della normativa “emergenziale” di questo periodo.

I temi sono molti e qui ne affrontiamo alcuni, a nostro avviso particolarmente interessanti, considerando sempre un’ottica di interesse per le imprese e quindi aspetti correlati alla disciplina contrattualistica, a quella societaria, fallimentare ovvero alla sicurezza sul lavoro.

 

  1. LA NORMATIVA “EMERGENZIALE”

L’ “intoccabile” gerarchia delle fonti del diritto

Dopo l’adozione di diversi DPCM, volti a regolamentare la situazione di emergenza quale quella che abbiamo vissuto e stiamo vivendo a causa della pandemia da COVID-19, è intervenuto opportunamente il DL n. 19 del 25.03.2020, convertito dalla Legge n. 35/2020, a “mettere un po’ d’ordine”.

Per molti italiani fino a qualche tempo fa l’acronimo DPCM non significava nulla, ora non c’è probabilmente un italiano che non sappia che stiamo parlando del Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri.

Nella gerarchia normativa i DPCM occupano solo il terzo posto (dopo la Costituzione e le norme di primo livello quali le Leggi, i Decreti Legislativi e i Decreti Legge), trattandosi di fonti secondarie (atti amministrativi generali).

Il principio generale è che le norme di rango inferiore non possono modificare le norme di grado superiore, ma in questo momento storico ci accorgiamo come i DPCM abbiano assunto efficacia imperativa senza limiti.

E proprio alla luce di questo principio generale è intervenuto il DL n. 19 (convertito dalla Legge n. 35/2020) stabilendo che al fine di contenere e contrastare i rischi sanitari derivanti dalla diffusione del COVID-19, su parti o tutto il territorio nazionale, si sarebbero potute adottare, secondo quanto previsto dallo stesso DL (che ha posto norme di rango gerarchicamente superiore a quelle dei DPCM), una o più misure di contenimento tra quelle specificamente indicate nel medesimo DL n. 19. E’ stato altresì espressamente previsto che le violazioni alle misure con ciò adottate fossero punite con una sanzione amministrativa del pagamento di una somma e non ai sensi dell’art. 650 c.p. (salvo, ovviamente, che il fatto non costituisse reato) e ciò con effetto retroattivo e quindi anche per le violazioni ai precedenti DPCM già contestate, in piena coerenza con quanto prevede l’art. 2 del c.p.

Opportunamente quindi i DPCM hanno consentito l’attuazione di quanto stabilito dal DL, con espresso riconoscimento di efficacia dei DPCM emanati.

Con questo provvedimento, rispettoso del sistema gerarchico delle fonti del diritto del nostro ordinamento, è stato messo quindi ordine alla normazione che si è avuta in materia.

Il passaggio alla sanzione amministrativa in luogo di quella penale (art. 650 c.p.) per i casi meno gravi probabilmente è derivata dalla consapevolezza del fatto che altrimenti le Procure della Repubblica sarebbero state letteralmente sommerse da notizie di reato che le avrebbero occupate oltremodo.

 

  1. CORONAVIRUS E LA GESTIONE DEI CONTRATTI

La forza maggiore

Mai come in questo periodo storico si sente parlare di forza maggiore, termine che gli avvocati hanno studiato all’Università e forse affrontato in qualche esame di stato o concorso ma che raramente è stato visto capitare nella prassi.
La “forza maggiore” è l’eccezione alla regola in base alla quale i contratti devono essere adempiuti da entrambe le parti e consente eccezionalmente ad una parte di liberarsi dalla prestazione e dalla conseguente responsabilità (anche risarcitoria).

La forza maggiore è qualsiasi causa non imputabile al debitore che rende impossibile l’adempimento (art. 1256, 1° comma , codice civile), ma analoghi istituti si conoscono anche nel diritto cinese (art. 117 legge sui contratti della Repubblica popolare Cinese) e nel diritto internazionale (art. 79 Convenzione di Vienna), senza citare tante altre legislazioni nazionali straniere che lo contemplano.

Sono di storica introduzione nei contratti internazionali, anche se di rara applicazione (fino a oggi), le clausole c.d. “hardship” che estendono ulteriormente i limiti della “forza maggiore”.

Le conseguenze di una causa di forza maggiore possono essere:

  • La sospensione
  • La rinegoziazione o
  • La risoluzione del contratto

La diffusione del COVID-19 trascina con sé anche questo fenomeno e non abbiamo dovuto attendere molto per leggerne le prime applicazioni (o tentativi di applicazioni) pratiche.

 

La c.d. “clausola coronavirus” e le locazioni commerciali

Con l’introduzione dell’art. 91 del Decreto Cura Italia (D.L. 18/2020, convertito dalla Legge n. 208/2020) si parla già di “Clausola Coronavirus”, quasi fosse stata introdotta una norma “libera tutti”.

Per vero, come osservato, la forza maggiore trovava già ingresso nella disciplina contrattuale tramite una serie di norme:

  • l’art. 1218 c.c. già prevede che il debitore non sia responsabile dell’inadempimento se questo è determinato da causa a lui non imputabile;
  • l’art. 1256 c.c. già prevede che l’obbligazione contrattuale si estingua quando la prestazione divenga impossibile per causa non imputabile al debitore (se, però, è temporanea il debitore non è responsabile del ritardo);
  • l’art. 1467 c.c. già prevede che in caso di avvenimenti straordinari e imprevedibili, se la prestazione di una delle due parti diventa eccessivamente onerosa, tale parte può domandare la risoluzione del contratto.

 

In questo contesto normativo preesistente si colloca l’art. 91 del Decreto Cura Italia (D.L. 18/2020 convertito dalla Legge n. 208/2020) secondo il quale: “Il rispetto delle misure di contenimento di cui presente  decreto  è  sempre  valutata  ai  fini dell’esclusione, ai sensi e per gli effetti  degli  articoli  1218  e 1223 c.c., della responsabilità del  debitore,  anche  relativamente all’applicazione di eventuali decadenze o penali connesse a ritardati o omessi adempimenti”.

In verità, l’art. 91 del Decreto Cura Italia ha solamente affermato che il rispetto delle misure di contenimento integra, ai fini del già noto art. 1218 c.c., la giusta causa per non imputare al debitore l’inadempimento della prestazione.

Il tema della forza maggiore  così delineato ha assunto importanza notevole soprattutto in tema di locazioni commerciali, ma come si collega (quantomeno direttamente) al mancato pagamento del canone?

Innanzitutto le misura di contenimento adottate avevano impedito l’apertura dei punti vendita, quindi semmai avevano di fatto impedito l’assolvimento dell’obbligazione del locatore (ammesso che, in questo caso, possa ritenersi nella sua sfera di controllo) di garantire al conduttore il godimento dell’immobile, ma certamente non, di per sé e automaticamente, il pagamento di un’obbligazione di denaro (il canone), ancorché il negozio fosse chiuso.

Ovviamente e d’altra parte, non si può pensare che il conduttore sia tenuto a pagare per sempre un canone intero, quando non ha potuto aprire al pubblico i locali per esercitare la sua attività di impresa, ma questo ha richiesto e richiede una valutazione caso per caso secondo i principi generali già esistenti e, quindi:

  • Va valutato se, ai sensi dell’art. 1218 c.c., l’impossibilità di aprire i locali al pubblico abbia determinato anche un’impossibilità di pagarne il canone;
  • Va valutato se, ai sensi dell’art. 1256 c.c., l’impossibilità di aprire i locali al pubblico abbia determinato una impossibilità definitiva di pagare il canone o, se temporanea, ne giustificasse (o ne giustifichi) la sospensione;
  • Va valutato se, ai sensi dell’art. 1467 c.c., l’impossibilità di aprire i locali abbia determinato una eccessiva onerosità del sinallagma contrattuale tale da giustificare la risoluzione del contratto.

 

A quest’ultimo proposito, si osserva peraltro in punto risolubilità del contratto (ex art. 1467 c.c.), che dovremmo soppesare la mancata disponibilità dei locali per pochi mesi, rispetto a un contratto che (di media) dura almeno sei anni, quindi uno squilibrio, nel sinallagma contrattuale, non sempre così rilevante.

Caso per caso, quindi, non per principi assoluti va affrontata questa crisi che, oltre che sanitaria, sta rapidamente diventando economica e sociale, consci che il Decreto Cura Italia non ha prodotto istituti o clausole nuove.

 

  1. LE SOCIETA’

Il decreto Liquidità e le disposizioni in materia di società di capitali

Il Decreto c.d. “Liquidità” (D.L. 8.04.2020 n. 23 convertito dalla Legge n. 40/2020) ha introdotto alcune norme che disciplinano in via temporanea (solo per quest’anno) alcune deroghe importanti alla disciplina della società di capitali, nello specifico:

  • l’ 6 del Decreto prevede che dal 9 aprile 2020 al 31 dicembre 2020 non si applichino le norme che impongono la riduzione del capitale per perdite nelle S.p.A. (artt. 2446 commi secondo e terzo, e 2447 c.c.) e nelle S.r.l. (artt. 2482bis commi quarto, quinto e sesto e 2482ter c.c.) e, nel contempo, che non operino le norme sullo scioglimento ex lege per perdite (artt. 2484, comma primo n. 4, e 2545-duodecies c.c.);
  • l’ 7 del Decreto prevede che la valutazione delle prospettive di continuità, nella redazione del bilancio di esercizio, può essere operata se risulta sussistente nell’ultimo bilancio chiuso in data anteriore al 23 febbraio 2020, ancorché non ancora approvato;
  • l’ 8 del Decreto prevede che ai finanziamenti alle società effettuati nel periodo dal 9 aprile 2020 al 31 dicembre 2020 non si applichino le regole sulla postergazione rispetto agli altri debiti sociali, previste dagli artt. 2467 e 2497quinquies c.c.

 

In questo contesto, è chiaro che l’intento del legislatore è quello di alleggerire le società di capitali da una serie di regole che imporrebbero una maggiore attenzione sulla tutela del capitale sociale, per far fronte all’emergenza contingente.

In questa ottica, si registrano anche la disposizione che dichiara improcedibili le richieste di fallimento fino al 30.06.2020 (art. 10 del Decreto Liquidità di cui parleremo in seguito), fatta salve alcune eccezioni, e quella che rinvia a settembre 2021 l’entrata in vigore del Codice della Crisi (art. 5 del Decreto Liquidità convertito dalla Legge n. 40/2020).

In sostanza, queste previsioni consentono per il periodo limitato intercorrente tra il 9 aprile e il 31 dicembre di non dover convocare l’assemblea in presenza di perdite di capitale, nemmeno nei casi più gravi in cui siano superati i limiti di legge per la sopravvivenza della società (dal momento che, peraltro, non si applicano nemmeno le norme sullo scioglimento ex lege per perdite).

Nel contempo, i finanziamenti che i soci volessero effettuare in questo periodo sarebbero trattati come tutti gli altri crediti e, quindi e in teoria, ripetibili in ogni momento.

In sostanza, quindi, in presenza di crisi di liquidità, i soci potrebbero farvi fronte non con conferimenti di capitale ma con finanziamenti soci, quindi mantenendo il diritto di averli restituiti anche prima dello scioglimento della società e non solo dopo il pagamento di tutti gli altri debiti.

Con questo alleggerimento vengono di conseguenza meno le relative responsabilità degli amministratori, ma ci permettiamo di offrire una riflessione perché non tutto in realtà è roseo come sembra e questo non deve far pensare che sia consentito agire con leggerezza.

Se, infatti, in caso di fallimento di una società dopo il 30 giugno, è ben vero che agli amministratori non potrà essere imputata la responsabilità per non aver convocato l’assemblea per ripianare le perdite (non trovando applicazione le norme temporaneamente derogate dall’art. 6) tuttavia ciò non toglie che se tale esigenza fosse sorta prima del 9 aprile, l’amministratore potrebbe essere comunque chiamato a rispondere per non averlo fatto prima (quando la deroga non era in vigore).

Inoltre, se si decidesse di sostenere le società con il sistema del finanziamento soci, per poi ripeterli prima del fallimento, si incorrerebbe comunque nella responsabilità penale per pagamento preferenziale (art. 216 Legge Fallimentare) perché se è vero che il finanziamento soci non è postergato, ciò non implica che possa essere rimborsato in violazione della par condicio.

Occorre, quindi, fare attenzione a queste norme perché tanto spazio lasciano all’iniziativa degli amministratori, tante insidie altrettanto nascondono e solo nei prossimi mesi potremo verificarne le conseguenze.

 

Le Assemblee Societarie

Tra i tanti problemi che il Covid-19 ha portato, una menzione è richiesta anche per l’organizzazione delle assemblee societarie, come sopra accennato.

La quasi totalità degli statuti societari contempla da tempo la possibilità di adunanze assembleari e consiliari attraverso mezzi di telecomunicazione, ma solitamente si prevede una sede fisica dove (di regola) devono essere effettivamente e contestualmente presenti il presidente e il segretario verbalizzante.

L’esigenza primaria di evitare i contatti, tuttavia, ha posto il tema delle riunioni interamente telematiche, senza la presenza contemporanea di nessun partecipante nel medesimo luogo.

Il Consiglio Notarile di Milano, notoriamente attivo e seguito con il proprio massimario, si è subito attivato con la massima n. 187 che, rifacendosi al DPCM 8.3.2020 ha ritenuto ammissibili le assemblee anche senza la presenza contemporanea del presidente e del segretario e, peraltro, la possibilità di tenere le assemblee per telecomunicazione anche se non espressamente previsto dallo statuto.

Il Decreto Cura Italia (D.L. 18/2020 convertito dalla Legge n. 208/2020) è intervenuto anche su questo e all’art. 106 espressamente ha legittimato le adunanze tenute esclusivamente in via telematica, senza la necessaria presenza nello stesso luogo del presidente e del segretario o del notaio.

 

Coronavirus e nuovi assetti organizzativi

Il nuovo Codice della Crisi d’Impresa, all’art. 375, comma 2 ha introdotto la sostanziale riforma dell’art. 2086 c.c. – che cambia rubrica da “Direzione e gerarchia dell’impresa” a “Gestione dell’impresa” – aggiungendo un secondo comma alla predetta disposizione che recita: «L’imprenditore, che operi in forma societaria o collettiva, ha il dovere di istituire un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato alla natura e alle dimensioni dell’impresa, anche in funzione della rilevazione tempestiva della crisi dell’impresa e della perdita della continuità aziendale, nonché di attivarsi senza indugio per l’adozione e l’attuazione di uno degli strumenti previsti dall’ordinamento per il superamento della crisi e il recupero della continuità aziendale».

L’imprenditore, conseguentemente, ha l’obbligo di adottare degli assetti organizzativi, amministrativi e contabili finalizzati a monitorare, ed eventualmente, rilevare situazioni patologiche che potrebbero sfociare anche nella crisi dell’impresa.

Nel rispetto di questa normativa, ci si è chiesti se il Coronavirus imponga l’adozione di particolari accorgimenti nell’organizzazione degli assetti.

Per esempio, nel rispetto dei decreti legge che si sono susseguiti con frequenza settimanale, quando non giornaliera, ci si interroga se l’invito al telelavoro implichi anche l’assegnazione ai dipendenti degli strumenti necessari per la connessione da remoto, ai sensi dell’art. 2087 c.c.

E su questo tema, ad esempio, si è anche dibattuto sulla spettanza dei c.d. “buoni pasto”, con orientamenti contrastanti, salvo essersi pronunciato sul punto il Tribunale di Venezia con decreto del 08.07.2020 n. 3463/2020 statuendo che i buoni pasto, non costituendo elementi retributivi, non sono dovuti nei confronti del personale che espleta attività lavorativa in regime di smart working.

Anche la normativa sulla privacy, in un periodo dove la conoscenza della sintomatologia dei dipendenti e collaboratori rappresenta ormai ragione di tutela pubblica, va attentamente considerata

 

La sicurezza nei luoghi di lavoro al tempo del coronavirus

L’imprenditore è tenuto ad adottare, nell’esercizio dell’impresa, le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro a fronte della pandemia di Coronavirus.

 

Tale obbligo è previsto dall’art. 2087 cc, da leggersi in combinato disposto con l’art. 25-septies, D.Lgs. 231/2001, che impongono al datore di lavoro di garantire la salute dei suoi dipendenti, tutelandoli anche da un eventuale rischio biologico, rischio oggi quanto mai reale.

 

La mancata adozione delle misure di tutela della salute dei dipendenti potrebbe esporre l’azienda al rischio di incorrere nella responsabilità amministrativa da reato di cui al D.lgs. n. 231/2001 e alle relative sanzioni pecuniarie e interdittive, con l’aggravio di una situazione economica già compromessa dall’epidemia.

 

Per le imprese deve quindi essere obiettivo primario quello di coniugare la prosecuzione delle attività d’impresa con la garanzia di condizioni di salubrità e sicurezza degli ambienti di lavoro e delle modalità lavorative, adottando tutte le opportune misure per contrastare la diffusione del virus nei luoghi di lavoro e attenendosi ai principi di massima cautela e prudenza, vigilando sul rispetto delle best practice operanti in materia.

 

In particolare, nel “Protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro”, sottoscritto lo scorso 14 marzo e poi integrato in data 24 aprile 2020, alle aziende operanti sul territorio nazionale sono state fornite delle linee guida, alle quali i datori di lavoro devono attenersi, finalizzate a incrementare, negli ambienti di lavoro non sanitari, l’efficacia delle misure precauzionali di contenimento, adottate per contrastare l’epidemia da COVID-19.

 

Al fine di scongiurare il rischio di incorrere nella responsabilità amministrativa da reato di cui al D.lgs. n. 231/2001, le imprese, non solo sono tenute a uniformarsi attivamente a tali linee guida, ma anche ad adottare tutte le misure idonee a prevenire rischi per la salute dei lavoratori.

In tal senso è determinante dotarsi di procedure interne volte a garantire la più idonea osservanza delle cautele poste a tutela della salute dei dipendenti revisionando quanto prima le misure di prevenzione.

Un tanto anche ovviamente sotto il profilo dell’aggiornamento del DVR, se ritenuto necessario quale immediata conseguenza, e/o del MOG 231 aziendale.

 

  1. LA DISCIPLINA FALLIMENTARE

Stop ai fallimenti richiesti durante il periodo di lockdown

Con il DL n. 23 dell’8 aprile 2020 (convertito dalla Legge n. 40/2020) il Governo ha disposto uno “stop” alle dichiarazioni di fallimento delle imprese commerciali e dello stato di insolvenza delle grandi imprese con riferimento ai ricorsi depositati ai sensi della Legge Fallimentare e del d.lgs. n. 270/1999 (c.d. Legge Prodi bis relativa alla disciplina delle procedure di insolvenza delle grandi imprese in crisi) nel periodo dal 9 marzo al 30 giugno 2020.

In particolare l’art. 10 del medesimo DL stabilisce, al primo comma, che “Tutti i ricorsi ai sensi degli articoli 15 e 195 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 e 3 del decreto legislativo 8 luglio 1999, n. 270 depositati nel periodo tra il 9 marzo 2020 ed il 30 giugno 2020 sono improcedibili”.

Fanno eccezione e quindi la disposizione che precede non si applica, in ragione di quanto previsto dallo stesso art. 10 come convertito in legge:  a) al ricorso presentato  dall’imprenditore  in  proprio,  quando l’insolvenza non e’ conseguenza dell’epidemia di COVID-19; b) all’istanza di fallimento da chiunque formulata ai sensi degli articoli 162, secondo comma, 173,  secondo  e  terzo  comma,  e  180, settimo comma, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267; c) alla richiesta presentata dal pubblico  ministero  quando  nella medesima e’ fatta domanda  di  emissione  dei  provvedimenti  di  cui all’articolo 15, ottavo comma, LF ovverosia di provvedimenti cautelari o conservativi a tutela del patrimonio dell’impresa, o quando la richiesta e’ presentata ai  sensi  dell’articolo  7, numero 1), LF (quando l’insolvenza risulti nell’ambito di un procedimento penale, dalla fuga, dalla irreperibilità o dalla latitanza dell’imprenditore, ovvero dalla chiusura dei locali dell’impresa, dal trafugamento, dalla sottrazione o diminuzione fraudolenta dell’attivo da parte dell’imprenditore).

Si può constatare che il periodo preso in considerazione ai fini dell’improcedibilità dei ricorsi per la declaratoria di fallimento dell’imprenditore commerciale o dello stato di insolvenza di grandi imprese è superiore rispetto a quello stabilito dall’art. 36 del medesimo DL in relazione alla sospensione di tutti i termini processuali (sino all’11 maggio 2020).

Interessante altresì la precisazione di cui all’ultimo comma dell’art. 10 del DL n. 23/2020 (convertito dalla Legge n. 40/2020), ove si dice che, nelle ipotesi in cui alla dichiarazione di improcedibilità dei ricorsi ai sensi del primo comma faccia poi seguito entro il 30 settembre la dichiarazione di fallimento, il periodo dal 9 marzo al 30 giugno 2020 non viene computato nei termini di cui all’art. 10 (relativo alla dichiarazione di fallimento dell’imprenditore cancellato da Registro Imprese), 64, 65, 67, commi 1 e 2 LF (che disciplinano la revocatoria degli atti a titolo gratuito della revocatoria ordinaria e fallimentare)  69 bis (che disciplina la decadenza dall’azione con riferimento alle azioni revocatorie) della Legge Fallimentare.

Si osserva che la disposizione dell’art. 10 del DL n. 23/2020 non richiama espressamente la disciplina di cui la DL n. 347/2003, convertito con modifiche in L. n. 39/2004 (c.d. “Legge Marzano”) relativo alla procedura di amministrazione straordinaria delle “grandissime” imprese (o gruppi) in crisi (con dipendenti non inferiori a 500 e debiti non inferiori a 300 milioni di euro), non richiamando l’art. 2 della Legge Marzano.

Peraltro, considerata la ratio della norma appena introdotta, non si vedono ragioni per non considerare improcedibili anche i ricorsi per la dichiarazione di insolvenza presentati nello stesso periodo (dal 9 aprile al 30 giugno 2020) ai sensi dell’art. 2 del DL n. 347/2003, contestualmente all’istanza al Ministero delle attività produttive per l’ammissione alla procedura di amministrazione straordinaria tramite la ristrutturazione economica e finanziaria di cui all’art. 27, comma 2, lett. B) del d.lgs. n. 270/1999. Un’interpretazione di questo tipo appare peraltro avvalorata, a nostro avviso (si rinvengono per vero anche interpretazioni diverse) anche dai richiami alla disciplina della Prodi bis operati dall’art. 4 del DL n. 347/2003 relativo all’accertamento dello stato di insolvenza.

 

Il tendenziale favor per le procedure concorsuali minori

All’improcedibilità delle istanze di fallimento proposte dal 9 marzo al 30 giugno 2020 (salve le eccezioni sopra elencate), il DL n. 23 del’8 aprile (convertito dalla Legge n. 40/2020), ha aggiunto all’art. 9 una serie di disposizioni che sembrano volte, a nostro avviso, a riconoscere rilevanza di forza maggiore alla pandemia in atto rispetto alle procedure di concordato preventivo e per l’omologa degli accordi di ristrutturazione dei debiti.

Questa inclinazione emerge con una certa evidenza dalla disposizione del primo comma della norma che proroga ex lege di sei mesi i termini per l’adempimento dei concordati preventivi e degli accordi di ristrutturazione dei debiti già omologati ed i cui termini di adempimento abbiano scadenza successiva al 23 febbraio (salva la differenza in materia di disciplina delle iniziative per la relativa risoluzione, dal momento che l’art. 186 LF non riguarda gli accordi ex art. 182 bis LF).

Come si può notare viene con ciò “coperto” un periodo ben più lungo rispetto a quello dei rinvii ex lege dei procedimenti in corso e della sospensione dei termini processuali (che l’art. 36 del medesimo DL n. 23 estende fino all’11 maggio 2020).

Per tale ragione si parla di un “diritto transitorio concordatario”.

Prosegue l’art. 9 del DL n. 23/2020 (convertito dalla Legge n. 40/2020), prevedendo per il debitore, con riferimento ai procedimenti in corso al 23 febbraio 2020 per l’omologazione del concordato preventivo e degli accordi di ristrutturazione dei debiti, la possibilità di presentare un’istanza per la concessione di un termine non superiore a novanta giorni per il deposito di un nuovo piano e di una nuova proposta di concordato preventivo (con l’eccezione dell’ipotesi in cui si sia tenuta l’adunanza dei creditori e non siano state raggiunte le maggioranze di cui all’art. 177 LF) o di un nuovo accordo di ristrutturazione dei debiti.

Al debitore è stata data anche la possibilità, dal comma 3 dell’art. 9 del DL n. 23/2020, di chiedere solamente un differimento dei termini per l’adempimento del concordato preventivo o dell’accordo di ristrutturazione dei debiti e ciò sino all’udienza fissata per l’omologa, depositando una memoria con indicazione dei nuovi termini (sino a sei mesi) e documentazione a conforto della necessità della modifica (si deve ritenere quale conseguenza della pandemia). Anche esaminando la relazione illustrativa, l’iniziativa del debitore appare definita come “unilaterale” e ciò, con particolare riferimento agli accordi di ristrutturazione dei debiti, parrebbe escludere la necessità di un consenso dei creditori aderenti all’accordo alla modifica dei soli termini di adempimento.

Il Tribunale di Udine con recente provvedimento (del 28 maggio 2020) pronunciato in un procedimento per l’omologa di accordo di ristrutturazione dei debiti ex art. 182 bis LF avviato da una s.r.l. con il patrocinio di Ponti & Partners ha confermato l’interpretazione proposta dai difensori secondo la quale la possibilità offerta al debitore dal comma 3 dell’art. 9 del DL n. 23/2020 di chiedere solamente un differimento dei termini per l’adempimento del concordato preventivo o dell’accordo di ristrutturazione dei debiti deve ritenersi “unilaterale”.

Con particolare riferimento agli accordi di ristrutturazione dei debiti si deve quindi escludere la necessità di un consenso dei creditori aderenti all’accordo che non sono coinvolti nella decisione del Tribunale sulla necessità della modifica dei termini come indicata dal debitore.

Il Tribunale, prevede ancora la norma, acquisito il parere del Commissario Giudiziale, quanto a procedure di concordato preventivo, “riscontrata la sussistenza dei presupposti di cui all’art. 180 o 182 bis del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, procede all’omologa, dando espressamente atto delle nuove scadenze” e da un tanto emerge l’interrogativo sull’ampiezza dei poteri del Tribunale e se si sia in presenza di una scontata remissività o meno.

Il comma 4 della disposizione riguarda i concordati con riserva, essendo previsto che il debitore che abbia ottenuto la concessione del termine ai sensi dell’art. 161, comma 6, LF (per il deposito del piano e della domanda completa di tutta la documentazione di cui all’art. 161 LF), già prorogato, può prima della relativa scadenza presentare istanza per la concessione di un ulteriore termine sino a 90 giorni (e ciò anche in pendenza di istanze di fallimento), indicando le ragioni poste a fondamento della richiesta di proroga con specifico riferimento ai fatti sopravvenuti per effetto dell’emergenza Covid-19. Il tribunale, acquisito il parere del Commissario giudiziale se nominato, concede la proroga quando ritiene che sussistano concreti e giustificati motivi (sempre riconducibili alla pandemia in corso).

In merito preme osservare che si sono avuti interpretazioni rigorose da parte dei Tribunali che hanno dato applicazione di tale disposizione, ritenendo che tale proroga non potesse essere concessa alla scadenza del primo termine concesso dal Tribunale, ma solo in ragione e successivamente ad una precedente proroga. Così nello specifico il Tribunale di Roma si è pronunciato nell’ambito di due procedure di pre-concordato con il patrocinio di Ponti & Partners (provvedimenti del 3 giugno e del 29 luglio 2020).

Istanza analoga può essere presentata dal debitore che abbia ottenuto la concessione del termine di cui all’art. 182 bis, comma 7, LF. Il Tribunale, conclude la disposizione, provvede in camera di consiglio omessi gli adempimenti previsti dall’art. 182 bis, comma 7, primo periodo, LF e concede la proroga quando ritiene che l’istanza si basi su concreti e giustificati motivi (correlati al Covid-19) e che continuano a sussistere i presupposti per pervenire ad un accordo di ristrutturazione ex art. 182 bis LF con le maggioranze previste dalla legge.

In sede di conversione è stato inserito un  comma 5 bis all’art. 9 sopra citato, a norma del quale il debitore che, entro la data del 31  dicembre  2021,  ha ottenuto la concessione dei termini di cui  all’articolo  161,  sesto comma, o all’articolo 182-bis, settimo comma, LF possa entro i termini così concessi, depositare  un atto di rinuncia alla procedura, dichiarando di avere predisposto  un piano di risanamento ai sensi dell’articolo 67, terzo comma,  lettera d), LF,  pubblicato  nel registro delle imprese, e depositando la documentazione relativa alla pubblicazione medesima.

 

Luca Ponti, Francesca Spadetto, Paolo Panella, Luca De Pauli